La bambina che regala una pesca al proprio papà, fingendo che sia un regalo da parte della mamma,
ha fatto centro. Tutti ne parlano, tutti si sono mossi, e tantissimi si sono com-mossi. Qualcuno si è anche indignato… al punto che sembra quasi sparita l’azienda che ha promosso questo spot, ESSELUNGA, che peraltro ha dalla sua una lunghissima e consolidata tradizione di linguaggio pubblicitario originale e caratteristico, con i prodotti alimentari trasformati e truccati, nei manifesti, in proverbi, borsellini, frasi di vita quotidiana, ecc. Qui c’è un salto di linguaggio, e una cura estrema della narrazione (infatti dietro la telecamera c’è un regista francese di grande esperienza, Rudi Rosenberg), con il giusto uso dei tasti emotivi, della musica, dei volti… Insomma, un piccolo gioiello di film, in 120 secondi, che riprende la tradizione di grandi registi prestati alla pubblicità – che dire di Fellini per Barilla, di Ridley Scott per Apple, e persino di Woody Allen per Coop (sempre supermercati italiani!). E questo vuole anche dire che queste pubblicità sono “speciali”, raccontano storie, e a volte possono anche raccontare “storie di famiglie”.
Ed è proprio lo storytelling sulla famiglia scelto dallo spot il motivo per cui l’Italia intera ne parla, troppo spesso schierandosi in tifoserie contrapposte. Genitori separati, un bambino in mezzo, il desiderio che i genitori possano tornare insieme… tutto negli sguardi e nei gesti, e in una pesca bellissima, tonda e sugosa, frutto che nello spot veniva proposto come astuto strumento di possibile riconciliazione, e che diventa invece, nel dibattito che si è poi innescato, un vero e proprio “pomo della discordia”.
Si è litigato su tutto: sulla difesa della famiglia tradizionale, sull’opportunità etica di sfruttare la sofferenza dei separati per vendere un prodotto, ma anche sulla stessa scelta di mostrarla, questa sofferenza..., e sulla riproposizione di una idea di famiglia alla “Mulino Bianco” (altra pubblicità, altro storytelling che serviva per vendere un prodotto). Insomma, questo spot è stato vivisezionato quasi che fosse un trattato sociologico sulla famiglia, o un documento giuridico che ne ridefinisse diritti e doveri. Invece, prima di tutto vale la pena ricordare che sempre di pubblicità si tratta – in inglese si chiamano anche “commercial”, tanto per capirci -, e che quindi non ci si può sorprendere se il messaggio intercetta soprattutto sentimenti, affetti, emozioni, più che la parte razionale. Una pubblicità, in ultima analisi, serve per far conoscere e far parlare una marca, un’azienda, un prodotto. E in questo ESSELUNGA ha certamente pescato il jolly, con questo spot. Se poi riesce ad muovere emozioni, sentimenti e discussioni a livello sociale, culturale e valoriale, allora il risultato va ben oltre le aspettative, e genera un valore aggiunto di socialità e di pubblica consapevolezza. Sta a chi ne discute, poi, non strumentalizzare i valori in gioco.
Mi permetto di aggiungere poi un’ultima riflessione, a metà tra la tecnica del racconto e il contenuto che viene narrato: questo spot è bello (o almeno, a me è piaciuto) soprattutto perché mette la telecamera ad altezza “occhi dei bambini”; e su questo non si dovrebbe discutere, ma solo cogliere l’occasione per ascoltare. Ascoltare quel desiderio di pace e di riconciliazione che ogni bambino manifesta, quando le cose vanno male tra i genitori, sia quando si separano, ma anche (e forse soprattutto) quando NON si separano, ma si fanno la guerra. Kramer contro Kramer, film del 1979, non raccontava forse la stessa storia, di come custodire il bambino in mezzo alla guerra dei genitori (gli inarrivabili Meryl Streep e Dustin Hoffman)? Se non mettiamo gli occhi “ad altezza bambino”, restiamo sempre adulti che decidono – e raccontano – sulla loro pelle. In fondo una delle più recenti innovazioni nel lavoro sociale e psicologico sono proprio i “Gruppi di parola”, un percorso dove si consente ai bambini di genitori separati di “tirare fuori” tutto il loro vissuto, i loro dolori, ferite, speranze, sensi di colpa, desideri, per poi riconsegnarli, alla fine del percorso, finalmente espressi in una lettera indirizzata ai propri genitori. Perché quello che i bambini sentono va guardato in faccia, non nascosto sotto il tappeto.
*Direttore Centro internazionale studi famiglia