Il cardinale Gianfranco Ravasi.
di Gianfranco Ravasi
Ero appena rientrato da un viaggio in Costa Rica ove avevo presieduto un incontro di vescovi delle due Americhe. Il telefono della mia casa romana squillava con insistenza e a più riprese. Erano alcuni giornalisti che volevano almeno una battuta su Alda Merini, scomparsa poche ore prima in quel 1° novembre 2009, sapendo il legame di amicizia e di dialogo che avevo mantenuto con lei sia a Milano sia dopo il mio approdo a Roma. A distanza di dieci anni, mi rimane solo l’eco dei suoi versi, spesso creati proprio durante le sue chilometriche telefonate. Non ricordo quando avvenne la nostra conoscenza: certamente fu dal momento in cui la vena mistica, che era da sempre in lei, si irrobustì fino ad assumere una forma nettamente cristologica. Fu così che nel 2001 mi chiese di scrivere la prefazione del suo Corpo d’amore. Un incontro con Gesù. La carnalità, che in lei era spesso intrecciata all’eros, qui si trasfigurava e diventava la «carne» del Verbo, la sua umanità gloriosa e dolente. Aveva, poi, voluto che fossi ancora io ad accompagnare una delle sue opere più alte, quel Poema della Croce (2004), non di rado proposto nelle chiese o in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra.
La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa.
Attorno alla rupe del Calvario s’addensava non solo l’odio del mondo, ma si delineava anche «il teatro della derisione », cioè la brutale stupidità e la volgarità dell’umanità che la Merini tanto detestava. Eppure lassù si inaugurava il giudizio definitivo sul male e si apriva il cielo della redenzione. La croce, ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava segno d’amore: «Dio ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto». Cristo è «la lacrima di Dio», una lacrima che «coprì tutta la carne del Figlio». La colpa e la grazia, l’inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini della follia che lei non temeva di rappresentare, consapevole – come era accaduto nella grande tradizione mistica e letteraria (si pensi solo all’Idiota di Dostoevskij) – che esiste una possibilità di conoscenza che travalica la ragione e non è necessariamente irrazionale. È per questo che nel 2007 aveva voluto che io preparassi un’altra introduzione per il poema consacrato al santo «folle» Francesco d’Assisi, «il liuto di Dio». Libero e nudo, egli entra agli occhi degli uomini «logici» e calcolatori in quella pazzia che è in realtà suprema saggezza, «folle come te, Signore,
folle d’amore». Anche prima che io partissi per quel viaggio in America, chiamandola all’ospedale milanese ove era ricoverata per i suoi ultimi giorni, mi aveva strappato la promessa che l’avrei visitata a Natale, quando sarei ritornato a Milano, anche perché – mi diceva – «non riuscirò a venire a Roma nella Cappella Sistina per l’incontro del papa Benedetto XVI con gli artisti del 21 novembre» del 2009, incontro a cui l’avevo invitata e per il quale era preoccupata sull’abito degno da indossare.
Nata nel primo giorno di primavera, Alda Merini è morta nella solennità di Tutti i Santi. Vorrei, allora, idealmente ricordarla applicando a lei i versi finali di una poesia inedita che mi aveva inviato proprio nel giorno del funerale di mio padre: «Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini».