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giovedì 12 settembre 2024
 
La Badessa di San Giulio
 
Credere

Madre Maria Grazia Girolimetto: «La clausura? Una finestra sull’eterno»

05/09/2019  È la nuova badessa del monastero benedettino fondato 45 anni fa sul lago d’Orta da madre Anna Maria Canopi. «Nella preghiera», spiega, «ci facciamo vicine a tutta l’umanità». E ci racconta perché ci si può santificare anche con una scopa...

Ci accoglie con una tisana e alcuni biscotti, trasportati su un vassoio d’argento elegantemente imbandito. «Accoglienza benedettina», sorride, alludendo alla celebre Regola riportata sopra alla porta d’ingresso della sala: «Hospites tamquam Christus suscipiantur». Ovvero: «Gli ospiti vengano accolti come fossero Cristo». In realtà, qui nel monastero benedettino Mater Ecclesiae dell’isola di San Giulio, sul lago d’Orta, chi rappresenta Cristo stesso per la comunità è proprio lei. Madre Maria Grazia Girolimetto, nata 56 anni fa in un paese della Brianza, lo scorso novembre è stata eletta badessa dalle più di cento consorelle (settanta sull’isola, più di trenta in altri luoghi del Nord Italia). Riceveva il testimone da madre Anna Maria Cànopi, che nel 1973 – chiamata dall’allora vescovo di Novara, Aldo Del Monte – aveva strappato ai rovi questo ex seminario abbandonato per farlo diventare ben presto un monastero che è diventato faro per la spiritualità cristiana. Il 21 marzo, quando “la Madre” è mancata a 87 anni, anche madre Maria Grazia era lì, insieme alle consorelle. «È morta proprio come desiderava, circondata da tutte noi in preghiera», ricorda. «È come se l’avessimo dolcemente consegnata nelle mani del Signore, il che ci ha dato una grande pace: non ci siamo mai sentite orfane».

Qual è il ricordo più vivo che ha di lei?

«“Coraggio e pazienza” mi diceva sempre, soprattutto quando io ero già badessa. Sono stati mesi molto preziosi per me: pur essendo lei in disparte, era per me il bastone cui appoggiarmi, la mano del Signore sicura che con lungimiranza sapeva indirizzarmi. Era una donna molto forte e molto dolce, all’apparenza esile, ma tanto robusta nella fede. Mi colpivano la mitezza e il silenzio interiore ed esteriore con cui accoglieva il bene e si lasciava ferire dal male, senza mai avere un moto d’impazienza. Aveva un grande equilibrio, una grandissima misericordia e quasi una certa ingenuità nel volto da fanciulla: proprio perché aveva una grande fede, poteva osare con Dio. Tuttora la sento molto presente».

Con quale spirito ha ricevuto la sua eredità?

«La sua è un’eredità preziosa custodita in vasi di creta. Sono molto consapevole dei miei limiti, ma ho anche un grande senso di pace: quello che mi è stato consegnato è un dono, un servizio che non ho cercato. Dobbiamo solo essere docili strumenti nelle mani di Dio».

Lei com’è giunta alla scelta della vita monastica?

«Sono cresciuta respirando la fede in famiglia e in parrocchia. Ero molto impegnata in oratorio e ho vissuto esperienze molto forti nella diocesi di Milano. Accostandomi alla Parola di Dio attraverso le lectio del cardinal Martini è nato in me un profondo anelito interiore. Avevo studiato Pedagogia all’Università Cattolica, insegnavo alla scuola secondaria. Un’esperienza molto arricchente. All’inizio pensavo di sposarmi, poi – attraverso un lungo discernimento – mi sono resa conto che non mi bastava un amore circoscritto a una famiglia. Desideravo qualcosa in più: arrivare a tutti. Allora non ho potuto far altro che mettermi nel cuore di Dio, per essere attraverso di lui il cuore materno per ogni uomo. È stata una scelta combattuta: all’inizio ho lottato con il Signore. Ma quando lui dà un’intuizione, dà anche la forza e i segni per proseguire. A 26 anni sono entrata in questo monastero».

Oggi, 30 anni dopo, rifarebbe la stessa scelta?

«Sì, anzi, entrerei in monastero anche prima. Perché solo nel luogo dove è riposta la propria vita si può trovare pienezza e felicità. All’inizio si ha sempre una concezione idilliaca della vita di clausura: si pensa sia ritirata, priva delle fatiche del vivere insieme. In realtà, quella monastica è prima di tutto una vita di grande comunione: viviamo gomito a gomito, 24 ore su 24, e non abbiamo vie di fuga. Per questo, prima di tutto, dobbiamo fare pace con noi stesse e affinarci nelle relazioni fraterne. Solo così, tra le mura del monastero, possiamo vivere in pienezza il Vangelo della carità, della mansuetudine. Anch’io la bellezza della vita comunitaria l’ho conosciuta e gustata pian piano. La motivazione per cui si sceglie non è mai quella per cui si resta: nel tempo, viene purificata».

Com’è strutturata la vostra giornata?

«La sveglia suona alle 4.20 e ci troviamo tutte nel coro. Soprattutto nelle prime ore della giornata facciamo bottino di preghiera per essere poi pronte a lavorare. Il monastero è come un alveare dove a ciascuna, in obbedienza, viene affidato un lavoro: nei laboratori di restauro di tessili antichi, di ricamo e di iconografia, nella stamperia, ma anche in cucina, lavanderia e sartoria. Alla sera, dopo cena, una sorella incaricata dello spoglio dei giornali ci riassume gli avvenimenti che, in tutto il mondo, richiedono la nostra preghiera. La portinaia fa invece presente le esigenze delle persone che durante la giornata hanno bussato alla nostra porta. È un momento di sana fraternità. Diversamente saremmo compresse».

Come si conciliano preghiera e lavoro nella vostra giornata?

«Per noi preghiera e lavoro sono un tutt’uno. Lavoriamo in silenzio per custodire il mormorio della Parola che abbiamo immagazzinato e quindi riemerge durante la giornata. Tutto il lavoro è un culto reso a Dio. La regola di san Benedetto dice che, mentre si lavora, “tutto deve essere considerato come i vasi sacri dell’altare”. Anche la scopa. Per questo non ci sono lavori di serie A e di serie B: se lavoro per servire il Signore, tutto ha lo stesso valore».

Cos’è allora la preghiera?

«Respirare col cuore di Dio, sintonizzare la nostra vita con lui».

Si può fare così esperienza di preghiera anche al di fuori del monastero?

«Sì, ritagliandosi nel cuore una piccola celletta interiore dove andare a rifugiarsi anche in mezzo al frastuono. E poi concedendosi spazi in cui ossigenare la propria vita attraverso silenzio e ascolto».

Il vostro monastero è proprio uno spazio di silenzio e ascolto per 10 mila persone ogni anno…

«Sì, è concretamente un porto per le anime. Poi, la sera, quando vanno via tutti con l’ultimo battello, noi rimaniamo sole sull’isola. Ma il monastero continua a essere una finestra aperta su quell’eternità dove tutto è visione di Dio».

Foto di Fabrizio Annibali

 
 
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