Monsignor Luigi Bettazzi, 97 anni. Foto Imago Mundi/Romano Siciliani. In alto e in copertina: foto Ansa.
Fu una rivoluzione. Che solo in parte ha dato frutti. Parola di protagonista. L’8 dicembre ricorrono i 55 anni dalla chiusura del Vaticano II. Famiglia Cristiana, in un'intervista pubblicata nel numero in edicola (di cui qui anticipiamo alcuni stralci), ospita i ricordi di un testimone d’eccezione: monsignor Luigi Bettazzi, 97 anni compiuti da poco.
«Io c’ero. Ho iniziato a partecipare ai lavori della seconda sessione il 29 settembre 1963. Meno di un mese prima ero stato nominato vescovo ausiliare di Bologna». Il documento più bello? «Forse è la Dei Verbum, che ha rimesso la Parola di Dio nelle mani e nel cuore di tutti i battezzati». Quello più attuato? «Probabilmente la Sacrosanctum Concilium, che ripropone la liturgia come preghiera di tutto il popolo di Dio. Anche se oltre l’uso delle lingue volgari, non si è fatto molto per superare il clericalismo, la prevalenza cioè del clero (e non solo nella liturgia); e oggi c’è una spinta per il ritorno all’antico con il pretesto che è più mistico». Il più importante, se possibile? «Antipatico dover scegliere, ma direi la Gaudium et spes, che cambia prospettiva. Non più Chiesa giudice severa e cittadella assediata, ma aperta a leggere i segni dei tempi, compagna di strada dell’uomo. Magari fossimo capaci di attualizzarne fino in fondo lettera e spirito».
Per monsignor Bettazzi molto rimane ancora da fare: «La rivoluzione copernicana contenuta nella Gaudium et spes (non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità) e quella della Lumen gentium (non i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli) stentano ad affermarsi». Concilio Vaticano III? «No. Credo semmai che vada attuato pienamente il Vaticano II. Non vorrei che un Vaticano III finisse con l’essere programmato per chiudere le aperture fin qui fatte»
Monsignor Bettazzi (a destra) giovane padre conciliare con l’inglese John Heenan (1905-75), arcivescovo cattolico di Westminster.
VIVERE DA POVERI PER I POVERI. IL PATTO DELLE CATACOMBE
C'è un aspetto del Vaticano II su cui monsignor Bettazzi si sofferma in particolare con famigliacristiana.it. Si chiama Patto delle catacombe. È il desiderio di vivere radicalmente il Vangelo fatto proprio da vescovi e preti. Vide la luce cinquant'anni fa esatti. Ha continuato a vivere sotto traccia per decenni, sconosciuto ai più. E' tornato alla ribalta con il pontificato di Jorge Mario Bergoglio: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!» (16 marzo 2013).
Tutto cominciò durante il Concilio Vaticano II (1962-1965). Già dalla prima sessione, un gruppo di vescovi e teologi si riuniva periodicamente al Collegio Belga per riflettere su “Gesù, la Chiesa e i poveri” e fare delle proposte all’ assemblea. Prendendo spunto da una frase di Giovanni XXIII in un radiomessaggio un mese prima dell’ apertura del Concilio (11 settembre 1962), l’ iniziativa prese il nome di “Chiesa dei poveri”. Molti vescovi latinoamericani si associavano a questa ricerca, tra i più noti monsignor Helder Camara del Brasile e monsingor Manuel Larrain del Cile. Ma c'eranop anche molti altri presuli, come monsignor Georges Mercier, vescovo di Laghout (Algeria), la diocesi di Charles de Foucauld, o come monsignor Charles-Marie Himmer, vescovo di Tournai, in Belgio. All'epoca, la figura più rappresentativa fu senza dubbio quella dell’ arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, soprattutto grazie ad un intervento che fece in aula il 6 dicembre 1962. Il porporato propose di assumere il tema del “mistero di Cristo nei poveri” come centro dell’ insegnamento dottrinale e dell’ opera di rinnovamento di tutto il Concilio. Questa riflessione attraversò come un fiume sotterraneo il Vaticano II, affiorando di quando in quando nei testi conciliari.
Questa riluttanza non era dovuta alle scelte di papa Paolo VI, che anzi incoraggiò molto il cardinal Lercaro e, durante la terza sessione, fece di propria iniziativa un gesto molto eloquente: depose la sua tiara sull’ altare di San Pietro come dono ai poveri. All’ impossibilità di vedere le loro intuizioni incarnarsi nei documenti conciliari, i sostenitori dell’ iniziativa “Chiesa dei poveri” decisero di scrivere un testo, conosciuto come “Patto delle catacombe”, firmato alla fine di una celebrazione eucaristica presso le Catacombe di Domitilla il 16 novembre 1965, un martedì. Alla luce fioca della sera, chi sottoscrisse questo Patto (42 padri conciliari, diventati poi nel tenpo 500 vescovi) s’ impegnarono a tradurre nella vita di tutti i giorni 12 punti.
In sintesi: «Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’ abitazione, l’ alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto»; «rinunciamo per sempre all’ apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti […]. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca ecc.»; «tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli»; «rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di padre». Venivano elencati altri aspetti per costruire una Chiesa più vicina ai poveri, «consci delle esigenze di giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni»: i contraenti si impegnavano a dare «quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi ecc. al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati»; «cercheremo di trasformare le opere di "beneficenza" in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia»; «eviteremo di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’ occhio a ricompense o a sollecitare doni».
Il primo a dare notizia di questo Patto fu l'autorevole quotidiano francese Le Monde, l’ 8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Concilio.
La copertina di Famiglia Cristiana del dicembre 1965 con la notizia della chiusura del Vaticano II.
Quella promessa (firmata da 42 vescovi diventati poi 500) per rifuggire potere, denaro e sfarzo
«Dal momento che Paolo VI non voleva che si parlasse troppo della Chiesa dei poveri (temeva che, in tempo di " guerra fredda" tra il mondo occidentale e quello bolscevico, l'accentuazione della Chiesa dei poveri potesse favorire quest'ultimo) ripromettendosi di parlarne lui in un' enciclica (che fu la Popolorum progressio del 1967, in cui però prevalse il tema della pace), il gruppo della Chiesa dei poveri (quello che faceva capo al Collegio belga), promosse un libero incontro», riassume oggi a famigliacristiana.it monsignor Bettazzi.
«La notizia si sparse tra amici e, il pomeriggio del 16 novembre (i pomeriggi erano occupati dalle Commisioni conciliari e dagli incontri degli episcopati nazionali), ci si trovò in 42 alle Catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina, dove il vescovo belga monsignor Himmer di Tournai, dopo aver celebrato l'Eucarestia, presentò un testo che i presenti avrebbero firmato e fatto firmare da altri vescovi. Il cardinale Lercaro fu poi richiesto di portarlo a Paolo VI, con la firma di oltre 500 vescovi. Il testo, poi denominato "Patto delle Catacombe" impegnava i vescovi firmatari a vivere più semplicemente - come vestiario, abitazione, mezzi di locomozione - a non tenere personalmente conti in banca e di servirsi per la finanza di laici preparati, a rinunciare ai titoli pomposi ed al supporto dei potenti, dedicandosi particolarmente ai poveri, ai più deboli, ai lavoratori manuali, curando opere sociali e sollecitando leggi di giustizia e di uguaglianza, in aperta solidarietà con gli episcopati delle nazioni povere e - nella vita quotidiana - in dialogo e collaborazione con i propri sacerdoti e laici».