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Oscar Romero, un santo contro la dittatura

11/10/2018  L’arcivescovo di San Salvador, martire del regime militare di cui denunciò le violenze, viene canonizzato insieme con Paolo VI. «Spero che i ragazzi del Salvador raccolgano il suo messaggio e abbandonino la violenza», dice il fratello minore Gaspar, che fu anche suo confidente

Il suo popolo lo aveva già capito da tempo. Vedeva in quel volto mite e benevolo, la personificazione dell’uomo di fede pronto a tutto per il bene dei suoi, un difensore strenuo, un padre sorridente e buono. E quando l’hanno ucciso, è corso in massa all’ospedale Policlínica Salvadoreña dove giaceva esanime il suo corpo, «per vedere il santo». Ora monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador per soli tre anni (dal 1977 al 1980), è ufficialmente canonizzato. Il percorso irto di ostacoli è finalmente giunto al traguardo e ha reso al martire del regime salvadoregno, la giusta palma della santità. Ed è significativo anche che sia salito agli onori degli altari insieme a Giovanni Battista Montini, il Papa che lo aveva nominato vescovo nel 1970.

Di formazione tradizionalista, Oscar Romero visse un’intima conversione attraverso l’incontro diretto con il popolo dei diseredati del suo amato Paese, vittima all’epoca di una dura dittatura militare.

Profondamente turbato dalle sofferenze che osservava nelle sue visite pastorali, scelse di diventare il difensore dei più poveri, nei quali scorgeva il volto di Cristo. «Scelgo di vivere qui», disse quando era ormai bersaglio di continue minacce da parte degli “squadroni della morte”, il braccio armato del regime, «perché è qui che devo concludere il mio apostolato. Se mi uccideranno, li ho già perdonati tutti. In ogni caso, è qui che devo morire perché è in mezzo al mio popolo che devo risorgere».

Sono passati più di 38 anni da quel drammatico 24 marzo 1980 in cui l’arcivescovo di San Salvador venne trucidato con un colpo di fucile mentre celebrava la Messa nell’atto di consacrare l’ostia. Di questo momento storico per un popolo e per la Chiesa universale, parliamo con una delle persone a lui più vicine in vita, il fratello Gaspar Romero.

Signor Gaspar, finalmente suo fratello è stato proclamato santo. Che significato ha questo evento per il suo Paese, per la Chiesa universale e per il mondo?

«Oscar Romero è il salvadoregno più conosciuto al mondo, l’unico che ha statue e immagini al di fuori del Paese. Per la mia famiglia è un grande onore, per El Salvador un orgoglio. La sua tomba è costantemente meta di pellegrinaggio,  sono venuti a visitarla vari presidenti, tra cui anche Barack Obama. Ma al di là della fama, credo sia molto importante che le parole, la semplice voce, la vita che ha condotto e infine la morte drammatica di mio fratello abbiano risvegliato molte coscienze nella nostra nazione e nel mondo. In ogni caso, Oscar era un uomo sempre sincero, un uomo di Chiesa e c’è così tanto di lui che ancora non è conosciuto. Spero che da ora in poi si possa comprenderlo nel profondo».

Lei, oltre che fratello, era amico, confidente, anche autista di Monseñor. Insomma, aveva un rapporto molto stretto e intenso con lui...

«Sì, infatti ho ancora vivo il dolore per la morte di un fratello, un dolore per la sua morte crudele. Come salvadoregno, poi, rimpiango la perdita di un grande uomo. Ricordo che l’ultima volta che lo vidi, il 21 marzo, tre giorni prima che venisse ucciso, fu perché gli era arrivata l’ennesima lettera di minacce: il tono di questa, però, era molto grave. Andai da lui sconvolto. Lui però mi rasserenò e mi disse di andare a casa, che mi avrebbe telefonato se avesse avuto bisogno di qualcosa. Purtroppo, quella chiamata non mi arrivò mai. Furono le suore dell’Hospitalito della Divina Provvidenza, dove l’arcivescovo stava celebrando la Messa delle 18, a telefonarmi per dirmi che Monseñor era stato assassinato».

Papa Francesco, il grande motore della causa di santificazione, ha dichiarato in effetti che «il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte, fu un martirio-testimonianza anteriore e posteriore al suo omicidio perché è stato diffamato, calunniato, infangato prima e dopo». La santità mette fine a una grande sofferenza?

«La sua figura ricalca quella di Gesù, che è stato insultato, preso a schiaffi, picchiato e infine ucciso. Negli ultimi anni, prima della morte, riceveva spesso messaggi anonimi e minacce di morte. Si figuri che alcuni mezzi di informazione architettarono campagne denigratorie in cui sostenevano che scrivesse le sue prediche sotto l’effetto dell’alcool o che fosse pazzo. Purtroppo, le diffamazioni sono continuate anche dopo la morte».

Il Papa ha deciso di proclamare santo monsignor Romero assieme a Paolo VI. Come considera questa scelta?

«È un grandissimo onore, non solo perché mio fratello viene accostato a una figura importantissima per la storia della Chiesa, ma anche perché i due erano stati amici in vita e Paolo VI ha sempre molto incoraggiato Oscar, specie nei momenti più duri».

Il suo Paese, sebbene sia finita la guerra civile, continua a essere caratterizzato dalla violenza. Da anni la brutalità delle gang criminali ha reso il Salvador il Paese del mondo con il più alto tasso di omicidi. Crede che la proclamazione del primo santo salvadoregno possa compiere il miracolo della pacificazione?

«La situazione è davvero molto triste. Tutti speriamo che la pace, una volta per tutte, giunga come una benedizione su questo povero Paese. La Chiesa dice che le generazioni attuali devono fare di tutto per trasmettere il messaggio alle nuove e allora sono felice che mio fratello venga santificato nel corso del Sinodo dei vescovi sui giovani, perché spero che i tanti ragazzi del mio Paese raccolgano il suo messaggio e così abbandonino la violenza».

LA VITA DI OSCAR ROMERO

1917
Secondo di otto fratelli, Oscar Arnulfo Romero y Galdámez nasce il 15 marzo a Ciudad Barrios, nello Stato di El Salvador (America centrale). La famiglia ha umili origini e Oscar fin da piccolo manifesta il desiderio di diventare sacerdote.

1930
 Entra in seminario.

1937
Notando la sua predisposizione, i superiori lo inviano a Roma per la formazione accademica. Studia all’Università Gregoriana.

1942
è ordinato sacerdote. Rientrato in patria si spende come parroco appassionato. Dirige la rivista ecclesiale Chaparrastique e, a seguire, il seminario interdiocesano di San Salvador.

1970
È nominato vescovo ausiliare della diocesi di El Salvador.

1971
Diventa segretario della Conferenza episcopale dell’America centrale e di Panama, ricopre l’incarico fino all’anno successivo.

1974
È nominato vescovo di Santiago de María, diocesi che copre uno dei territori più poveri della nazione. Il contatto con la popolazione, stremata dalla povertà e dalla repressione del regime, che voleva mantenere la classe più povera soggetta allo sfruttamento dei latifondisti, lo converte profondamente. Si schiera per i poveri.

1977
In febbraio diventa arcivescovo di San Salvador, proprio mentre la violenza del regime si inasprisce sempre più anche contro sacerdoti e religiose. Sceglie di abitare in un piccolo appartamento vicino all’ospedale della Divina Provvidenza. L’assassinio di padre Rutilio Grande, suo amico e collaboratore, lo spinge a denunciare le nefandezze della dittatura: proclama il Vangelo attraverso gli scritti e le omelie, diffuse tramite i mezzi di comunicazione sociale. «Vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!» è il suo grido all’esercito e alla polizia.

1980
Il 24 marzo, mentre sta celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale, è ucciso dagli “squadroni della morte”, braccio armato del regime.

2015
Il 23 maggio è beatificato a San Salvador.

2018
Il 14 ottobre è canonizzato a Roma.

Foto Reuters

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