C’è una mappa che non compare negli atlanti ufficiali. È fatta di strade interrotte, di confini che non hanno recinti ma barriere di cemento, di attese infinite davanti a un checkpoint. È la mappa della Cisgiordania occupata, dove ogni giorno la vita dei palestinesi si consuma tra demolizioni, sfratti, lavoro negato e terre sottratte. È da qui che parte l’allarme di Oxfam, che insieme a decine di organizzazioni italiane e internazionali ha deciso di lanciare una campagna per chiedere all’Unione europea, all’Italia e al Regno Unito di vietare il commercio con gli insediamenti illegali israeliani.



I numeri sono impressionanti: in appena due anni la povertà è salita dal 12 al 28%, mentre la disoccupazione ha raggiunto il 35%. Oltre il 42% della Cisgiordania è ormai occupato dagli insediamenti dei coloni. Negli ultimi cinque anni, l’espansione è cresciuta del 180%, con un’accelerazione che non accenna a fermarsi. «Negli ultimi anni l’oppressione di Israele sulle comunità palestinesi è diventata sempre più soffocante – spiega Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia –. È una strategia che mira a frammentare l’economia della Cisgiordania e minare la costruzione di un futuro Stato palestinese».


Video di Oxfam



Un anno fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva chiesto a Israele di ritirarsi dai Territori Occupati Palestinesi entro settembre 2025. La risposta è stata opposta: nuove unità abitative, nuove colonie, nuove terre espropriate. Il rapporto diffuso oggi da Oxfam ricorda che Israele, dal 1967 a oggi, si è appropriato di circa 2.000 chilometri quadrati per la costruzione degli insediamenti. Solo nel 2023 il governo ha autorizzato oltre 30.000 abitazioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. A maggio 2025, altre 22 nuove colonie. È un’espansione record, che rischia di spezzare definitivamente la continuità territoriale palestinese.



Ma non è solo questione di geografia. Ogni giorno i palestinesi devono fare i conti con circa 900 checkpoint sparsi per la Cisgiordania. Il 30% del territorio è ormai inaccessibile, e il costo economico delle ore di lavoro perse è stimato in 764.600 dollari al giorno: 16,8 milioni al mese. Con un terzo della popolazione senza impiego, sono soprattutto le donne a pagare il prezzo più alto: circa 6.500 lavorano negli insediamenti illegali, spesso senza contratto, senza assicurazione, senza tutele. La maggioranza guadagna meno di 20 dollari al giorno, ben al di sotto della media israeliana.



«Porre fine al commercio con gli insediamenti – sottolinea ancora Pezzati – è un passo necessario per sostenere i diritti umani e proteggere i mezzi di sussistenza della popolazione palestinese. Solo così si potrà contribuire davvero a fermare l'espansione degli insediamenti e porre fine all'occupazione illegale».

Il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del luglio 2024 ha chiarito che i governi che permettono scambi commerciali con gli insediamenti si rendono complici di una violazione del diritto internazionale. Eppure gli incentivi fiscali israeliani continuano ad attirare investimenti esteri. Il rapporto di Oxfam cita alcuni esempi: la multinazionale JCB fornisce macchinari usati per demolire case e costruire insediamenti; Siemens è coinvolta nello sviluppo della rete ferroviaria che collega le colonie; Carrefour ha aperto punti vendita nei Territori occupati; Barclays ha garantito oltre 18 miliardi di dollari in prestiti a società legate agli insediamenti.



Anche il turismo ha un ruolo: tour operator come TUI o piattaforme come Opodo propongono soggiorni negli insediamenti, presentati come normali mete di vacanza. E così, mentre la comunità internazionale continua a chiedere a Israele il rispetto del diritto internazionale, una parte del mercato globale contribuisce a rafforzare e rendere redditizio lo status quo.

L’Europa, in particolare, ha una responsabilità diretta. L’Ue è il principale partner commerciale di Israele: nel 2024 il volume totale degli scambi ha raggiunto i 42,6 miliardi di euro. L’Italia da sola ha importato beni e servizi per oltre un miliardo, con un totale di scambi pari a 4 miliardi. Nel Regno Unito la cifra sfiora le 6 miliardi di sterline. Numeri che raccontano una dipendenza economica e un flusso commerciale che, se non regolato, rischia di rendere vana ogni pressione diplomatica.



«Ad oggi – denuncia Pezzati – le politiche europee e nazionali che dovrebbero rendere riconoscibili i prodotti degli insediamenti vengono attuate in modo incoerente e spesso aggirate. Il risultato è che sugli scaffali dei supermercati europei troviamo prodotti etichettati come ‘Made in Israel’ anche se provengono da colonie illegali. È indispensabile mettere al bando questo commercio per difendere i diritti del popolo palestinese e il rispetto del diritto internazionale».

Da qui l’appello congiunto di Oxfam e delle altre organizzazioni della società civile: vietare l’ingresso nel mercato europeo di beni senza provenienza certificata, impedire a banche e istituzioni finanziarie di concedere prestiti a società basate negli insediamenti, sospendere l’accordo di associazione Ue-Israele fino al pieno rispetto delle clausole sui diritti umani. Un passo politico e simbolico, ma soprattutto concreto. Perché, come conclude Pezzati, «continuare a fare affari con chi viola ogni giorno la legalità internazionale significa diventarne complici».

Per questo Oxfam e i partner italiani – da Amnesty International ad Acli, da Arci a Libera, da Pax Christi a Un Ponte Per – invitano cittadini e istituzioni a firmare la campagna «Stop al commercio con gli insediamenti illegali». L’appello si può sottoscrivere qui: www.stop-insediamenti.it


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