di Sergio Casali
«Sono una donna fortunata». Quando ripercorreva la sua esperienza di internata nei campi di sterminio nazisti Liana Millu - maestra, giornalista, partigiana, ebrea deportata a Birkenau - si definiva così: “fortunata”, senza un’ombra di ironia, e spiegava quell’aggettivo ripercorrendo gli episodi della vita in cui si era sentita benedetta dalla sorte.
A raccontare questo volto di Liana - che fu educatrice appassionata, scrittrice e testimone instancabile - è stato il biblista e studioso di ebraismo Piero Stefani, storico amico e curatore di alcune delle sue opere più importanti, che martedì 4 febbraio, su invito del Centro culturale Primo Levi di Genova ha tenuto la conferenza: Liana Millu. Sono il numero A5384: testimone di memoria, educatrice ebrea.
Stefani è il più adatto a descrivere l'anima di Liana Millu, il suo spirito inquieto, vivace, che neanche la brutale violenza nazista è stato capace di domare: teologo cattolico, conobbe Liana alla metà degli anni Ottanta. Da allora l'amicizia tra Millu e quello che lei chiamava “il mio dotto amico” crebbe fino al punto che lei decise di consegnare a lui il Tagebuch, il diario del ritorno dal lager e lui la spinse a partecipare alla Cattedra dei non credenti del cardinal Martini.
Piero Stefani rifiuta di restringere questa esperienza intima nella semplificazione dell'amicizia “tra diversi”, l’intellettuale cattolico e l’ebrea agnostica: «La nostra è stata amicizia semplice, senza aggettivi - spiega – un’amicizia che supera le differenze perché c'è sempre una componente di credente nel non credente e di non credente in ogni uomo di fede».
Il ritorno alla vita di Liana Millu coincise con la sua liberazione, quando trovò in una fattoria abbandonata un quadernino e una matita e riempì tutte le 112 pagine con descrizioni, appunti e memorie. «Quello che la aiutò ad uscire da quell'esperienza così dura - racconta ancora Stefani - fu l'insegnamento, poi la scrittura e più tardi la testimonianza, che la accompagnò fino alla fine».
Fu proprio raccontando la sua vicenda ai giovani delle scuole che Liana iniziò a maturare quell'idea di sé stessa come una donna toccata dalla fortuna: «la prima fortuna - racconta Stefani - fu, al suo arrivo a Birkenau, incontrare una conoscente che la chiamò vicina a sé nella fila. Bastarono quei pochi passi per farle superare la SS un istante prima che questa abbassasse il frustino: tutto il resto della colonna andò verso la camera a gas e i forni».
La seconda “fortuna” fu quella di giungere al campo di sterminio nel maggio 1944. Quell'autunno i sovietici avanzarono si fermarono a poca distanza, costringendo i nazisti ad operare un primo sgombero di prigionieri: Liana salì su uno di quei convogli e questo la preservò dal durissimo inverno polacco e dalle Todesmärsche, le “marce della morte” del gennaio successivo, nelle quali morirono decine migliaia di prigionieri. «Ma quella che lei considera la più grande “fortuna” - spiega Piero Stefani - fu quello che avvenne in lei quando una nuova arrivata al lager appoggiò il braccio sulla sua cuccetta e lei sentì salire la rabbia e la insultò con una durezza spaventosa: fu in quel momento che ebbe un lampo di consapevolezza e si rese conto che stava diventando quella persona violenta in cui il sistema concentrazionario voleva trasformarla».
La sua felicità non nasceva dall’inconsapevolezza o da un vuoto ottimismo. Piuttosto, Millu aveva in sé la gioia di una donna che aveva combattuto contro l’orrore senza permettere che l’orrore si impadronisse di lei come invece accadde, forse, al suo amico Primo Levi, il quale le scrisse una lettera solo due mesi prima di togliersi la vita in cui le confidava «anche per me i giorni si stanno facendo corti». Millu non fu mai capace di parole di rancore, neanche verso i suoi vecchi carcerieri dei quali sapeva vedere “l’infinita stanchezza, l’infinita umiliazione, persino la bestiale paura”. Perché solo le astrazioni si possono odiare, ma - scrisse un giorno - “per me latina una creatura umana non potrà diventare mai un pezzo, uno Stück”. La sua risposta all’odio fu il lungo lavoro da maestra, quello da scrittrice acuta e intelligente, la tenace testimonianza. E i tanti fili di amicizia che seppe intrecciare. «Nel circo - amava ripetere - i momenti importanti sono sottolineati dal rullo dei tamburi. Nella vita però i tamburi non ci sono, per questo dobbiamo essere molto attenti alla vita degli altri».