Edoardo Erba.
Pirandello, premio Nobel per la letteratura 1934, ça va sans dire, fu uno dei drammaturghi più prolifici e innovativi dello scorso secolo a livello internazionale. Innumerevoli gli studi sui suoi testi, sull’umorismo, sulla poetica e sulla produzione teatrale. Eppure, c’è qualcosa che è sfuggito all’attenzione di critici e studiosi. Una curiosa ricorrenza nelle sue opere di una strana perversione sessuale: il marito che concede alla moglie di avere altri amanti. Ed è proprio da questo spunto sui generis che Edoardo Erba ha scritto il suo ultimo testo, “Pirandello Pulp”, in scena dal 4 al 16 marzo al Teatro Franco Parenti. Con la regia di Gioele Dix e interpretato da Massimo Dapporto e Fabio Troiano, Pirandello torna a sfidare il teatro, a raccontare di sé mettendo in discussione i rapporti gerarchici interni al fare teatro, mettendo in scena un nuovo “giuoco delle parti” che vede in combutta un regista e un tecnico di scena che vogliono cimentarsi proprio con la rappresentazione omonima. Abbiamo intervistato Erba per farci raccontare i retroscena della scrittura drammaturgica.
Come è nata questa idea e cosa comporta cimentarsi con Pirandello?
L'idea mi è venuta parecchi anni fa. Sono un drammaturgo, quindi conosco bene Pirandello: l'ho letto, studiato e sono andato a vederlo varie volte. Una volta in particolare sono andato a vedere Il gioco delle parti e ho notato che parla sempre di una particolare perversione sessuale, ovvero quella del marito che concede alla moglie di andare con altri. E questa dinamica si ritrova in molte sue commedie, declinata in forme diverse. Lui è ricordato per la grandezza del pensiero teatrale, per il concetto di maschera, di uno, nessuno, centomila.
Ma trovo che invece la cosa di cui parla di più sia una cosa molto più semplice: è una perversione mentale, molto più strana. Quindi, riflettendoci, dopo qualche anno mi è venuta l'idea: raccontare di un regista che doveva mettere in scena proprio il gioco delle parti che si trova a confrontarsi con un tecnico delle luci che non sa nulla dello spettacolo, è un ignorante, non sa niente neanche di Pirandello, non sa niente di niente. Per cui il regista comincia a spiegargli come rappresentare lo spettacolo. Alla fine i ruoli si ribaltano, poiché il tecnico si rivela più abile nel comprendere questo gioco perverso di Pirandello, avendolo vissuto in prima persona. Questo rapporto va quindi avanti, fino ad arrivare a un finale in cui si capisce che tutto questo, come in Enrico IV, è una recita di due soggetti che non sono quello che annunciano di essere. Alla fine dei conti, si tratta di un atto d'amore, una critica e anche un po' una presa in giro di Pirandello.
Si può dire che anche in questo caso c'è un vincitore e un vinto, come nel testo originario di Pirandello? Come si risolve questa inversione?
Alla fine c'è un solo vincitore, che è il teatro. Scrivo teatro quasi da 40 anni, ho scritto tante commedie e naturalmente per fare un lavoro del genere con grande costanza ci vuole tantissima passione. Questo media antico mi ha veramente appassionato, ho fatto di tutto per rinnovarlo, perché quello che deve fare un drammaturgo oggi è innanzitutto cercare di far tornare vivo un patrimonio che ha 2500 anni.
E che gioco delle parti c’è attualmente nel teatro? Chi vince tra regia e drammaturgia?
Al momento anche la drammaturgia italiana si è imposta, pensiamo a Stefano Massini e al suo Lehman Trilogy che è stato apprezzato in tutto il mondo. Questo ha dato una grande mano alla drammaturgia italiana. Anche io ho avuto opere rappresentate in tantissimi paesi, Germania soprattutto, Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Giappone. Ho girato un po', ho visto le varie situazioni teatrali. La nostra drammaturgia è molto apprezzata e considerata, lo era anche prima, anche quella contemporanea che ha stentato un po' ad affermarsi, però adesso ha una sua dignità. Quando porto un testo non sono più guardato come un essere strano.
Lei, essendo sia drammaturgo che regista, vive su di sé questo gioco dei ruoli. Quale veste con più piacere?
Preferisco quello del drammaturgo. Ho cominciato a fare regia con i miei primi testi, semplicemente perché non li mettevi in scena nessuno. Poi per più di vent'anni non ne ho fatte più. Adesso ho ricominciato a farle con grande piacere perché ogni tanto penso che sono stato troppo solo, ho passato troppe ore a scrivere e adesso mi godo la compagnia degli altri, il lavoro di regista che prima mi sembrava quasi una perdita di tempo rispetto a quello dello scrittore. Ho ritrovato la gioia del teatro puro. È la gioia di stare con gli altri, di condividere un lavoro: il teatro è un lavoro collettivo, dove anche la persona che dà il contributo più umile ha la stessa dignità degli altri. A me piace molto anche per questo, è un lavoro molto egualitario. Il cinema è un po' più gerarchico. Nel teatro dei contemporanei, invece, c'è una grande familiarità con i tecnici, con chi contribuisce allo spettacolo in un altro modo. Si viene a creare una specie di itai doshin, dicono i giapponesi: tutti convergono verso un punto. Poi trovo, da un punto di vista sociale, che il teatro sia una salvezza per tante persone difficili - io compreso - che difficilmente troverebbero una collocazione in un lavoro più organizzato, invece dentro questa specie di caos organizzato riescono a esprimersi.
Il regista Dix ha apportato cambiamenti al testo originario oppure è rimasto fedele?
C'è una grande fiducia reciproca: a me piace lavorare così con le persone, dando molta fiducia e credendoci. Mi sembrava, dalle conversazioni che abbiamo avuto, che avesse capito a fondo lo spirito del testo. Un drammaturgo lo sa che deve essere sempre un po' tradito nella regia. E questo è perché, siccome il teatro è vitale, tutte le volte che c'è una nuova messa in scena, questa si adatta un po' alla compagnia, alla situazione, alle idee del regista e quindi il testo subisce inevitabilmente qualche piccola variazione. È uno scambio reciproco.