Parigi, 5 gennaio: al quinto piano del Beaubourg. Oreste Scalzone sosta in compagnia di alcuni compagni dell’ex area dell’Autonomia veneta in attesa d’incontrarsi con un giornalista. La caféterie è a pochi passi, come sempre piena di gente. Dalla grandi vetrate di plexiglas un tiepido sole riscalda i visitatori della galleria d’arte moderna. Alle 12.15, confuso tra la folla, ecco arrivare Gianni De Michelis, ministro della Repubblica, accompagnato da una giovane signore bionda. Insieme entrano nella galleria d’arte”.
Preciso, spiegando subito quando, dove, chi e come, David Maria Sassoli, allora ventottenne, cominciava così l’articolo di Famiglia Cristiana che nel gennaio del 1985 scatenò un putiferio politico coinvolgendo partiti, governo e la Presidenza della Repubblica.
Lo scoop di Sassoli appare sul numero 4 del giornale, datato 27 gennaio 1985, nella pagina della rubrica “come vanno le cose”. È un articolo breve, senza fronzoli, tutto di sostanza. E che sostanza: Sassoli è testimone dell’incontro fra un ministro della Repubblica (il socialista Gianni De Michelis, ministro del lavoro e della previdenza sociale del Governo guidato da Bettino Craxi) e Oreste Scalzone, allora leader di Autonomia Operaia, latitante in Francia dopo aver subito due condanne, per associazione sovversiva e per concorso morale in rapina. Lo scandalo è provocato non solo dall’incontro fra il ministro e il latitante, ma anche dal contenuto del dialogo fra Scalzone e De Michelis, i quali parlano di una possibile amnistia e dei ministri che potrebbero essere favorevoli al provvedimento (forse Martinazzoli, Falcucci e Covatta).
Le reazioni politiche all’articolo di Sassoli sono immediate. Si fa sentire la voce dei giornali di partito, in particolare L’Unità (voce del PCI) e Il Popolo (organo di stampa ufficiale della DC).
Il giornale democristiano definisce “Irresponsabile” il colloquio di De Michelis con “il sinistro personaggio” e considera l’episodio incompatibile con i doveri di un ministro. L’Unità ritiene “incredibile” il comportamento del ministro e si chiede: “Può un ministro della Repubblica incontrasi amichevolmente e scambiare opinioni con un latitante che si sottrae alla giustizia dei tribunali della Repubblica? Secondo noi no. Assolutamente no. Inequivocabilmente no”.
De Michelis non smentisce l’incontro casuale, ma definisce prive di fondamento le dichiarazioni che gli vengono attribuite. Bettino Craxi difende il suo ministro e compagno di partito, parla di “montatura” e “provocazione”.
Il 23 gennaio Antonio Maccanico, Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, il più stretto collaboratore del Presidente Pertini, annota: “Nel primo pomeriggio il Presidente mi esprime la sua intenzione di chiedere a Craxi le dimissioni di De Michelis per il suo incontro con Scalzone. Craxi a questo riguardo mi aveva telefonato per dirmi che si trattava di una aggressione gratuita, in quanto l’incontro era stato fortuito e forse provocato da un giornalista democristiano. Ho consigliato al Presidente di scrivere in forma riservatissima”.
Di fronte alle insinuazioni di Craxi, Famiglia Cristiana decide di replicare: “Palazzo Chigi ha parlato in difesa di De Michelis usando i termini vagamente leninisti di ‘montatura’ e ‘provocazione’. Speriamo che si riferisse soltanto alla reazione alla nostra notizia, non a noi: Famiglia Cristiana non ha ‘montato’ un episodio tutto vero, dalla prima parola all’ultima, dedicandogli solo lo spazio necessario e dunque senza rilievo particolare; e non ha inteso ‘provocare’ niente e nessuno. A cose fatte diciamo molto serenamente che torneremmo a comportarci nello stesso modo, sicuri di dare una notizia interessante e nulla di più. Restiamo al caso De Michelis. Non c’è il minimo dubbio che il ministro abbia commesso un’imprudenza: nella sua veste di membro del governo, sia pure in vacanza, non poteva accettare un dialogo con un latitante, ricercato dalla giustizia del nostro paese; non poteva, nemmeno se l’incontro era stato del tutto casuale. Non poteva e non doveva. Tutto qui. Ma una volta commessa la leggerezza, non poteva e non doveva negarla (come ha fatto, smentendo quello che non può smentire) né tantomeno esibire ai giornalisti ‘solidarietà’ che non aveva, come quella del presidente del Senato Cossiga. Nessuno è perfetto: l’ammissione di un errore compiuto in completa buona fede è un gesto che tra gentiluomini si apprezza”.
Mentre della vicenda comincia a interessarsi, sollecitata dalla Procura Generale, anche la Procura della Repubblica, il caso coinvolge sempre di più il Quirinale. L’esistenza della lettera con la quale Pertini aveva chiesto a Craxi le dimissioni di De Michelis viene svelata da Repubblica. È lo stesso Pertini a confidarlo a Eugenio Scalfari di fronte alle dichiarazioni di Craxi, che nega l’esistenza di “un caso De Michelis”. Poiché Craxi nega l’esistenza della lettera, il Quirinale la conferma uffiialmente. Questo provoca la reazione di Gennaro Acquaviva, consigliere politico di Craxi, che, come annota Maccanico, accusa il Quirinale “di aiutare a creare insieme a Repubblica trappole per il Governo con rotture della riservatezza”. L’accusa è gravissima.
“Mai una divergenza così drastica al vertice delle istituzioni”, attacca L’Unità. “Un Watergate per Craxi”, titola il quotidiano “L’Ora”.
Intanto Pertini, in visita a Madrid il 28 gennaio , viene stuzzicato dai cronisti all’Accademia di San Ferdinando. Presidente, se lei incontrasse un latitante italiano, gli stringerebbe la mano? Pertini si ferma e sbotta: “Se incontrassi un latitante in Italia chiamerei la polizia e lo farei arrestare. Se l’incontro all’estero e viene per stringermi la mano gli dico: ‘No! Lei qui vie protetto dall’asilo politico, ma la mano a lei non la stringo, perché uno che ha ammazzato poliziotti è un assassino, ha una condanna di trent’anni. Trova asilo in Francia? Che significa? A me non interessa. No. No, Se ne vada via. Sono un uomo onesto e non voglio stringere la mano a un disonesto e assassino. E se potessi la farei arrestare”.
Queste dichiarazioni provocano la reazione della madre di Scalzone, Eugenia, che scrive a Pertini rifiutando la qualifica di “assassino” per il figlio: “Perché Ella si scaglia in modo così ingiusto contro un uomo che, ad onta dei fiumi di inchiostro versati contro di lui, ha creduto in un progetto d liberazione sociale lo ha portato avanti con tutte le sue energie, magari commettendo errori di valutazione, non certo quelli di cui è stato accusato, e meno che mai questo da Lei irresponsabilmente attribuitegli?”.
In quei giorni vignettisti e opinionisti si scatenano. Su L’Espresso Forattini disegna De Michelis, folta chioma al vento, inseguito da Aldo Moro (ucciso 7 anni prima dalle Brigate Rosse) che, forbici da barbiere in mano, gli grida: mascalzone. Sullo stesso numero del settimanale Giampaolo Pansa, nella sua rubrica “Chi sale e chi scende”, scrive che “Oreste ‘Guastafeste’ mandò Gianni k.o.”.
La vicenda si placa all’inizio di febbraio. Il primo giorno del mese, alla vigilia di un vertice di maggioranza e di un dibattito in Parlamento, De Michelis scrive a Pertini per esprimere “il suo vivo e sentito rincrescimento per l’involontario turbamento del diffuso sentimento di intransigenza nei confronti del terrorismo, fenomeno verso il quale non ha mai inteso né intende attenuare la più severa condanna”. Nei suoi diari Antonio Maccanico, annota che Pertini “è visibilmente soddisfatto e tonificato”, aggiungendo che la lettera “diffonde subito un senso di distensione e di sollievo”.