Sono passati dieci anni dallo sgombero della baraccopoli di via Rubattino a Milano. Eravamo nel pieno dell’Emergenza Nomadi proclamata dal Governo: ci fu il primo censimento etnico della storia italiana dal 1938, con le impronte digitali prese ai bambini rom che suscitarono le proteste della comunità ebraica («Timbrati ed esclusi come noi ebrei», disse Amos Luzzato) e le centinaia di sgomberi inutili e costosi. La Giunta Moratti di Milano arrivò a festeggiare il traguardo dei 500 in quattro anni: milioni di euro venivano buttati per interventi che, senza risolvere i problemi, spostavano le persone in un assurdo giro dell’oca per le periferie della città. Un simbolo fu il cavalcavia Bacula: fu sgomberato 40 volte. Divennero simboli anche bambini come Samuel, costretto a cambiare otto scuole in tre anni, o Cristina, cacciata venti volte in un anno. E i loro quaderni distrutti al grido di «ruspa!».
Il 19 novembre 2009, le forze dell’ordine arrivarono alla baraccopoli di via Rubattino addirittura accompagnate dall’esercito. Di notte le famiglie si rifugiarono sotto il cavalcavia della tangenziale, con i loro neonati, senza nemmeno una coperta per proteggerli. Seguirono settimane di caccia all’uomo fatta di tende tagliate, baracche abbattute, sgomberi continui. Quel “cattivismo” rivendicato con orgoglio lascia, ancora oggi, ferite aperte: tre giovani, allora bambini, hanno diagnosi neuropsichiatriche che attestano le conseguenze mediche di quei giorni.
Quel 19 novembre 2009, però, racconta anche l’inizio di un’altra storia, una reazione inaspettata, seppur preparata dai ponti di amicizia tessuti dalla Comunità di Sant’Egidio nell’anno prima dello sgombero: i cittadini del quartiere, con le scuole in prima fila, si mobilitarono in favore dei rom. «Pensai che dovevamo salvare le cartelle dei nostri alunni», racconta con semplicità la maestra Flaviana Robbiati. I box di alcuni abitanti della zona divennero il riparo per i pochi oggetti sottratti alle ruspe, centinaia di cittadini si mobilitarono per raccogliere coperte e pasti caldi. Addirittura alcune insegnanti e mamme dei compagni di classe aprirono le porte delle proprie case per dare ospitalità alle famiglie rom: «Il dramma ha rafforzato i rapporti, sono gli amici dei nostri figli e dunque li trattiamo come figli», spiegava una di loro sulle pagine di Famiglia Cristiana di dieci anni fa.
Mentre l’allora vicesindaco De Corato accusava associazioni e cittadine di “buonismo” e intanto colpiva ancora più duro, il cardinale Dionigi Tettamanzi spiegava, nell’importante discorso di Sant’Ambrogio, che «la risposta della Città non può essere l’azione di forza, senza alternative e prospettive, senza finalità costruttive». E ancora: «La miseria non sia zittita, ma piuttosto ascoltata per essere superata».
Tante persone e realtà, molto diverse tra di loro, si unirono non rassegnandosi all’ingiustizia. In via Rubattino, nella strada che porta il nome di un armatore che attraversava i mari, si è svolta così una “nuova” navigazione, che ha preso il largo dai pregiudizi e cercato di cambiare un destino già segnato. Iniziava una lunga rotta, una straordinaria avventura di incontro, solidarietà e amicizia tra tanti milanesi e rom, che non erano più “gli zingari”, una categoria infida e minacciosa, ma “il mio alunno”, “il compagno di classe di mio figlio”, Marius, Alina, Florin, persone con nomi e storie. Come in tutte le relazioni, il cambiamento è stato reciproco, rom e non rom sono cambiati insieme. In un decennio di storia, tante persone si sono aggiunte, ma soprattutto sono continuati i legami nati nei giorni dello sgombero e continuati condividendo i momenti brutti e quelli belli.
A dieci anni di distanza, occorre però fare anche qualche bilancio. Grazie a questa mobilitazione solidale, coordinata dalla Comunità di Sant’Egidio, la quasi totalità di quelle persone (73 famiglie) vive in casa, per loro è finito il tempo delle baracche e dei topi; in ogni nucleo almeno un adulto lavora; il 100% dei minori frequenta le scuole dell'infanzia, primarie e medie, molti ragazzi studiano alle superiori e fanno volontariato in città. È stato realizzato interamente da persone che hanno operato a titolo gratuito e volontario (gli operatori di Sant'Egidio e i tanti cittadini che si sono uniti in questa catena di solidarietà).
Insomma, dopo un decennio si può affermare che hanno avuto ragione coloro che non si sono rassegnati a una città che accetta la distruzione delle cartelle e festeggia che un bambino subisca venti sgomberi in un anno. Di fronte a quello che rappresenta uno dei maggiori casi di superamento della baraccopoli e di accesso alla casa in Italia, appaiono ancora più scomposte e sbagliate le accuse di buonismo di chi invece preferiva sprecare soldi pubblici sgomberando sempre le stesse persone senza risolvere i problemi. Soprattutto, la vicenda di via Rubattino – spiega la Comunità di Sant’Egidio – «mostra come la solidarietà possa essere contagiosa, sconfigge la rassegnazione e ci insegna che è più bello per tutti, rom e non rom, vivere gli uni insieme agli altri e non gli uni contro gli altri».
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