Sono la più grande minoranza europea - tra i 10 e i 12 milioni di persone - eppure la conoscenza del mondo rom e sinti è generalmente bassa. Tanto che con il tempo pregiudizi e inesattezze hanno preso il posto di dati e informazioni attendibili. «Innanzitutto non si può parlare di rom tout court perché si tratta di numerose comunità con culture e tradizioni fra loro differenti»: Carlo Stasolla sgombra subito il campo dagli equivoci. E il pensiero rimbalza immediatamente dalle «ville kitsch delle famiglie di rom abruzzesi a Roma» alle «tende improvvisate di rom bulgari a Foggia», passando per i volti di tanti rom divenuti famosi: da Elvis Presley a Charles Chaplin passando per il musicista Carlos Santana, il calciatore Zatlan Ibrahimovic, la ginnasta Nadia Komaneci e le famiglie circensi Togni e Orfei, giusto per citare alcuni esempi. Con il presidente dell'Associazione 21 luglio, che supporta gruppi e individui discriminati, cerchiamo di saperne di più. Con lo sforzo, indispensabile, a svincolarsi dai pregiudizi.
Cosa significa rom?
«Rom è il nome con cui queste persone si chiamano fra di loro. In lingua romanes rom significa uomo»
Zingari è sinonimo di rom?
«No, è un dispregiativo utilizzato dai non rom per identificare queste persone. Anche nomadi non è un termine corretto: come ha anche detto il Papa all’Incontro di preghiera con rom e sinti del 9 maggio, innanzitutto le persone non si definiscono con un aggettivo. E poi, tra l’altro, si tenga presente che solo una minima parte dei rom pratica il nomadismo: è una consuetudine dei soli circensi».
Chi sono e quanti sono i rom in Italia?
«È impossibile saperlo: alcuni parlano romanes, altri no. Ad ogni modo, secondo il Consiglio d’Europa i rom in Italia sarebbero circa 180 mila, suddivisi in 22 principali comunità, costituitesi a partire dal 1500: i rom italiani di antica immigrazione (abruzzesi, celentani, basalisk, pugliesi e calabresi); i sinti (piemontesi, lombardi, mucini, emiliani, veneti, marchigiani, gàckane, estrekhària, kranària); i rom balcanici di recente immigrazione (harvati, kalderasha, xoraxanè, sikhanè e arlija/siptaira); i rom bulgari; i rom rumeni e i caminanti, originari di Noto in Sicilia».
Vivono tutti nei “campi rom”?
«No, assolutamente. Le mappature del nostro Osservatorio dicono che i rom che risiedono negli insediamenti formali e informali (i cosiddetti “campi rom”) sono 25 mila. Le baraccopoli istituzionali sono 127 e si trovano in 74 Comuni. Solo un rom su 7 vive nei campi, gli altri in case e appartamenti».
Quali sono i tratti distintivi della loro cultura?
«Impossibile rispondere, non esiste una cultura rom. Ma, d’altra parte, come potremmo presentare una sola cultura italiana? Di certo non possiamo accostarli a stereotipi dicendo che sono tutti musicisti, suonano il violino e che gli piace stare all’aria aperta».
Sono persone credenti?
«Difficile rispondere, proprio come prima. Ma sappiamo che fra i rom ci sono cattolici, musulmani e pentecostali».
Come definirebbe la condizione dei rom in Italia?
«Riferendoci a coloro che vivono nelle baraccopoli, direi marginalizzata. Chi sta nei campi, ideati e creati dalle istituzioni, vive in un contesto dove ci sono tutte le dinamiche del ghetto. Vivono sulla propria pelle tutte le problematiche della mancata inclusione. L'aspettativa di vita di rom e sinti che vivono nei campi è di dieci anni inferiore a quella della popolazione italiana».
Fra i pregiudizi più diffusi, si dice che i rom rubino i bambini
«È la stessa cosa che i rom pensano dei non rom, quelli che – con termine dispregiativo – chiamano gajè. Come in tutte le situazioni di povertà, alcuni gruppi rom hanno famiglie numerose. È la situazione economico-sociale, più che quella culturale, a favorire le nascite. Dove c’è vita urbana, istruzione, inclusione e partecipazione al sistema tributario, le famiglie sono meno numerose».
Si dice anche che non vogliano lavorare…
«Esattamente quello che pensavano i romani dei baraccati negli anni Sessanta e Settanta. Di coloro che vivono ai margini si dice sempre che non vogliono lavorare, fanno tanti figli e poi magari hanno anche oggetti di grande valore: una volta era la radio, oggi il Mercedes…».
È vero che sono propensi a delinquere?
«Si tratta di una percezione, non ci sono studi scientifici che lo dimostrano. Certo dove c’è marginalità il livello di delinquenza è più alto: pensiamo alle baraccopoli di Nairobi in Kenya o di Salvador de Bahia in Brasile. Sono situazioni fisiologiche, non culturali».
Come si mantengono?
«Per lo più con lavori informali: raccolta e lavoro del ferro, di oggetti inutilizzati che poi vengono sistemati e venduti, sempre in mercati informali. Ancora, facendo traslochi. È un’economia sommersa nella quale sono coinvolti anche non rom».
Perché in Italia l’antiziganismo è così diffuso e si manifesta con picchi di violenza?
«L’antiziganismo in Italia è una costante, scorre sotto traccia. Quando qualche leader politico o esponente delle istituzioni sdogana, pompa, l’odio, allora la popolazione si sente legittimata all’insulto e alle violenza. Le politiche non inclusive sono generate e traggono la loro ragion d’essere dal pregiudizio presente nel sentire comune. E proprio queste politiche finiscono per giustificare, rafforzare e amplificare l’antiziganismo».