Eduscopio, gruppo di lavoro della Fondazione Agnelli, stila le classifiche delle migliori scuole italiane a partire dai risultati ottenuti dai liceali quando si iscrivono all’università, oppure dagli studenti dei tecnici e professionali nel momento in cui cercano lavoro.

Eraldo Affinati, scrittore e insegnante.
Eraldo Affinati, scrittore e insegnante.

Eraldo Affinati, scrittore e insegnante.

(ANSA)

In base a tali parametri, secondo dati che riguardano 1.355.000 ragazzi di 8.150 scuole, i primi diplomati quadriennali non avrebbero ottenuto esiti incoraggianti, moltissimi istituti non sarebbero all’altezza, alcune realtà didattiche si confermano, altre deludono, la grande maggioranza neppure compare nella lista da cui le famiglie dovrebbero scegliere dove indirizzare i loro figli dopo la terza media.

I giornali enfatizzano queste statistiche quasi si trattasse di una gara sportiva, con tanto di podio e medaglie: il liceo campione d’Italia è il Giovanni Battista Ferrari di Este, in provincia di Padova, a Milano il Berchet torna in vetta, a Roma è sempre il Visconti ad avere la meglio, a Bologna il Galvani mantiene il primato….

Signori, verrebbe da dire, la scuola non merita di essere trattata così. È una cosa molto più complessa e difficile da capire che riguarda il bene comune, la coscienza dei futuri cittadini, i valori che intendiamo trasmettere alle nuove generazioni. Tanto per dirne una, la risposta giusta non sempre corrisponde alla verità e quella sbagliata non dovremmo mai gettarla nel cestino: la prima rischia di essere un adesivo alla parete, pronto a staccarsi il giorno dopo essere stato incollato; la seconda potrebbe rivelare un segreto prezioso impossibile da comunicare. I gruppi che danno più soddisfazione ai docenti e rendono meglio sono quelli eterogenei, non quelli selezionati verso l’alto o verso il basso: una classe di ripetenti sarebbe tristissima, come una composta da secchioni. Non solo i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario: sia nella singola aula, sia nell’intero territorio nazionale.

Perché dobbiamo accettare il pensiero secondo il quale contano solo gli obiettivi raggiunti o mancati? E se invece a fare la differenza fosse il percorso che registriamo dalla stazione di partenza a quella dove qualcuno ha deciso che dovremmo tagliare il traguardo? Ogni apprendimento possiede una forma propria, un tempo unico: uniformarli tutti secondo i famigerati standard di valutazione oggettiva potrebbe significare eleggere a valore assoluto una semplice convenzione culturale. In Italia abbiamo inventato l’Umanesimo: è proprio inevitabile assoggettarsi ai modelli anglosassoni?

E poi quando avremo fatto credere ai genitori che le scuole vincitrici di questo immaginario torneo dovranno essere quelle preferite, magari perché prive di alunni immigrati che attarderebbero la corsa, cosa ne faremo di tutte le altre? Le lasceremo marcire in serie B, nella retrovia polverosa, solo perché non hanno saputo raggiungere le performance da noi stabilite? Come facciamo a spiegare che educare non è solo istruire?