Nacque a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, il 15 gennaio 1811 e morì a Torino il 23 giugno 1860. Giuseppe Cafasso fu un sacerdote santo che direttamente o indirettamente formò a sua volta sacerdoti santi. E rimase accanto ai carcerati, accompagnando al patibolo i condannati a morte. A giudizio unanime è una delle radici profonde della cosiddetta Torino dei santi sociali, maturata in un contesto socio-economico non facile, segnato dai moti risorgimentali, da elite liberali spesso laiciste, massoniche, anticristiane, dalla crescente industrializzazione che portò a fenomeni migratori dalle campagne verso la città che generarono un inurbamento caotico e gravido di tensioni.
Nato in una famiglia contadina, Giuseppe Cafasso era terzo di tre figli: la sorella Marianna divenne la madre del beato Giuseppe Allamano (1851-1926), rettore del Convitto e del Santuario della Consolata, nonché fondatore dell’Istituto Missioni della Consolata. Fu sempre gracile e minuto, «era quasi tutto nella voce», diceva don Bosco, eppure fu un gigante nello spirito. Fu ordinato prete il 21 settembre 1833 nella chiesa dell’Arcivescovado di Torino e l’anno dopo avvenne l'incontro con don Luigi Guala (1775–1848), dalla spiritualità ignaziana, insigne moralista e teologo, di cui il Cafasso fu collaboratore e con il quale fondò il Convitto ecclesiastio di San Francesco d’Assisi, volto alla formazione del clero torinese, dove don Cafasso entrò nel 1834.
Padre spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica, formatore di preti, a loro volta formatori di altri preti, religiosi e laici, in una sorprendente ed efficace catena, Cafasso fu rettore per 24 anni del Convitto ecclesiastico, che nel 1870 si trasferì al santuario della Consolata, dove oggi riposano le sue spoglie. «Le sue lezioni erano attraenti, osserva la storica Cristiana Siccardi, perché costruite sulle verità di fede e sul sapiente bagaglio di conoscenze, ma anche palpitanti di documentazione raccolta dal vivo nel confessionale, al capezzale dei morenti, nelle missioni predicate al clero e al popolo, e nelle carceri, luogo a lui molto caro. Uomo di sintesi e non di pedanti trattazioni, combatté il rigorismo di matrice giansenista. Voleva fare di ogni sacerdote un uomo di Dio splendente di castità, di scienza, di pietà, di prudenza, di carità; assiduo alla preghiera, alle funzioni religiose, al confessionale, devoto di Maria Santissima e attingente forza dal Santo Sacrificio. Primo dovere del prete, diceva, era quello di essere santo per santificare».
Fu confessore della serva di Dio Giulia Falletti di Barolo (1786-1864) e fra i sacerdoti da lui formati vanno ricordati san Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), fondatore dell'Opera di Santa Zita e della congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, il beato Clemente Marchisio (1833-1903), fondatore dell’Istituto delle Figlie di San Giuseppe, Lorenzo Prinotti (1834-1899), fondatore dell’Istituto dei sordomuti poveri; Adolfo Barberis (1884–1967), fondatore delle Suore del Famulato Cristiano. S'adoperò molto per la conversione dei peccatori. Non a caso era assiduo delle prigioni cittadine, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a volte tutta la notte. Portava sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce che i carcerati raschiavano dai muri; ma soprattutto portava alla conversione ladri e assassini efferati. Talvolta, annota ancora la storica Cristiana Siccardi, erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte, invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche a pochi istanti prima dell’impiccagione. Il «prete della forca», così è stato chiamato, usava immensa misericordia, possedendo un’intuizione prodigiosa dei cuori, e trattava i suoi «santi impiccati» come «galantuomini», tanto che il colpevole sentiva così forte l’amore paterno di Dio da volersi unire a lui, come il buon ladrone, crocefisso accanto a Gesù sul Calvario.