Per la prima volta un ex progettista e fabbricante di armi, Vito Alfieri Fontana, racconta nel libro Ero l'uomo della guerra – La mia vita da fabbricante di armi a sminatore scritto insieme al nostro giornalista Antonio Sanfrancesco (Laterza, pp. 224, € 18, versione ebook € 10,99) le sue due vite che ha vissuto.
Per oltre vent’anni, alla guida dell’azienda di famiglia, Fontana ha progettato e prodotto due milioni e mezzo di mine antiuomo vendendole in diversi Paesi del mondo. Poi una crisi di coscienza e una conversione drammatica innescata – in parallelo con la Campagna contro la messa al bando condotta dai movimenti pacifisti e dal mondo cattolico – da un invito di don Tonino Bello a partecipare a Bisceglie, nel 1993, a un convegno sul disarmo.
Anticipiamo un estratto del libro, in libreria da venerdì 22 settembre, in cui Fontana racconta il suo rapporto con don Tonino e l’importanza che ha avuto nel suo cambiamento radicale di vita.
Un mese dopo la morte di don Tonino, in un cinema di Bisceglie si svolge l’incontro coordinato da don Tonio Dell’Olio, uno degli amici e collaboratori più vicini a don Tonino e tra i promotori della Campagna italiana per la messa al bando delle mine antiuomo. Il colpo d’occhio è impressionante: altro che quattro gatti, la sala è affollatissima e fuori c’è una fila di gente che vuole entrare ma non trova posto.
Mi presento, racconto la mia storia, il lavoro che faccio alla Tecnovar e come l’azienda è entrata, quasi casualmente, nel business delle armi. L’atmosfera è tesa. Le prime domande, più che tendenziose, sono fuori bersaglio.
Una persona mi chiede se è vero che sono parente dell’ex ministro democristiano Nicola Vernola e come giustifichi questa commistione tra politica, industria delle armi e malaffare. Replico, con una battuta al vetriolo, di essere anche cugino di Enzo Augusto, capogruppo del Partito comunista al Comune di Bari, e ribatto per le rime chiedendo come sia possibile giustificare quest’altra commistione. Sono domande che oltre a voler puntare il dito contro le commistioni – che sono sempre esistite e sempre esisteranno tra politica e business delle armi, anche se nel mio caso non c’entrano nulla – risentono molto della temperie del momento.
L’Italia, infatti, è devastata dalla tempesta di Tangentopoli che nel giro di pochi mesi sta spazzando via, uno dopo l’altro, tutti i partiti della Prima Repubblica. Piovono avvisi di garanzia un po’ per tutti: Gabriele Cagliari (il presidente dell’Eni), Claudio Martelli, Paolo Cirino Pomicino, Gianni De Michelis fino a Bettino Craxi che si dimette da segretario del Partito socialista mentre viene arrestata la sua segretaria storica, Enza Tomaselli.
Forse la mia è una reazione istintiva e involontaria di difesa, ma di fronte alla folla emerge il mio carattere battagliero e, nel contraddittorio, faccio anche alcune battute sarcastiche che strappano qualche sorriso.
Poi racconto la storia di mio figlio, che un giorno mi aveva chiesto cosa fossero le mine dandomi dell’assassino, e il profondo turbamento che mi aveva procurato quel dialogo che mi aveva indotto a ripensare tutta la mia vita e il lavoro che facevo.
Anche se fino a quel momento, tutto sommato, me l’ero cavata abbastanza bene, non vedevo l’ora che l’incontro finisse per andare via.
Vito Alfieri Fontana. oggi 72 anni, durante un'operazione di sminamento a Sarajevo nel 2000. In alto, la copertina del libro "Ero l'uomo della guerra" (Laterza)
A un certo punto si alza in piedi un ragazzo che fino a quel momento era rimasto in silenzio: «Ingegnere, lei senza dubbio è simpatico e dimostra anche una certa verve nel dibattere con noi. Però io vorrei farle una domanda semplice semplice: ma lei cosa sogna la notte? Che scoppi un’altra guerra per produrre tante mine e guadagnare un sacco di soldi? Desidera che i conflitti in giro per il mondo si moltiplichino per poter lavorare e arricchirsi? Ma che razza di vita è la sua?».
In sala scende un profondo silenzio.
Per me è un colpo da k.o. molto simile, per certi versi, a quello subìto con mio figlio Ludovico quel giorno in macchina.
Difficile abbozzare una risposta. Ancora una volta l’offensiva sulla coscienza mi aveva messo di fronte a un bivio. Ventinove anni dopo, nel gennaio 2022, ho ricordato quest’episodio in un’intervista alla «Repubblica» affermando che la domanda di quel ragazzo era stata il momento di svolta, quello della “chiamata”.
Perché proprio in quell’istante avevo sentito chiaramente la voce di don Tonino Bello. Qualche giorno dopo su Facebook mi contatta un signore, Gianpietro Losapio, che aveva letto l’articolo: «Incredibile ma vero. Leggo la sua intervista sulla “Repubblica” di oggi e leggo di un ragazzo che le fa alcune domande scomode: quel ragazzo ero io, ventiquattrenne e nel pieno del mio servizio civile in Pax Christi e sulle orme di don Tonino. Incredibile».
Un messaggio che mi fece molto piacere perché Gianpietro non sapeva che ero andato fino in fondo e che il suo intervento, quel giorno, aveva definitivamente scardinato la mia coscienza.
Alla fine il confronto con i movimenti pacifisti, iniziato duramente, era andato ammorbidendosi; in fondo anch’io sostenevo alcune argomentazioni sui traffici illegali di armi e la necessità di controlli più severi. In quel campo, d’altra parte, avevo visto veramente di tutto.
Esco dall’incontro con l’animo sollevato ma non perché sia riuscito, in qualche modo, a tener testa a una platea agguerritissima e molto informata.
Il motivo profondo del mio sollievo è dovuto al fatto che ora ho la certezza di aver finalmente incontrato don Tonino pur non avendolo mai incrociato fisicamente, perché per incontrarsi non è sufficiente che qualcosa o qualcuno incroci il nostro cammino e ci venga incontro – come aveva fatto lui mandandomi quell’invito –, ma è necessario che anche noi gli andiamo incontro, cercandolo, attendendolo e soprattutto desiderandolo. Credo, in fondo, di aver conosciuto don Tonino Bello meglio di tanti altri che lo hanno incrociato o anche frequentato a lungo.
La chiamata che ho ricevuto dopo quel dibattito non ha nulla a che vedere con visioni mistiche o esperienze soprannaturali, è stata piuttosto la certezza che l’incontro con quell’uomo di Dio avrebbe generato per me un percorso nuovo di vita, anche se il nuovo cammino già mi appariva a ostacoli, incerto e durissimo.
«Ne abbiamo attraversate di tempeste / e quante prove antiche e dure / ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza / di un custode», canta Franco Battiato proprio in quel 1993. È Lode all’inviolato, quasi un salvagente che il cantautore sembra gettare nel mare agitato dell’Italia. Io ero certo che il mio custode, don Tonino Bello, mi avesse indicato la strada, invitandomi ad accantonare le paure residue, dicendomi «ora vai, tocca a te».
Come scrive il profeta Daniele, «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre». Da quella sera ho avuto la certezza di essere anch’io uno di quei molti.