L’Economist lo ha chiamato “gendercide”. Reso con un poco simpatico neologismo si tradurrebbe “generecidio”. Una parolina dal significato sinistro che indica il fenomeno degli aborti e degli infanticidi “selettivi” dei feti di sesso femminile e delle neonate. Negli ultimi decenni secondo il settimanale britannico circa cento milioni di donne sono scomparse nel mondo a causa di questa autentica piaga. Milioni di bambine mancanti all’appello, abortite o uccise appena nate per un brutale fattore economico. Il motivo? Sono un peso, costa mantenerle e farle crescere, hanno una capacità produttiva inferiore degli uomini e, al momento delle nozze, la dote da pagare al futuro marito costa. E molto. Solo da qui si spiega lo sviluppo della pratica dell’aborto selettivo “al femminile”, una volta accertato attraverso i mezzi di diagnostica prenatale (ecografia, amniocentesi e villocentesi) che il nascituro è femmina.

Di tutto questo e di tanto altro parla diffusamente Anna Meldolesi, giornalista scientifica già editorialista de Il Riformista e collaboratrice de Il Sole24Ore, nel suo libro Mai nate appena uscito in libreria per i tipi di Mondadori. Secondo l’autrice il problema, oltre ad essere sottovalutato, rappresenta una bruciante questione “di genere”, cioè di discriminazione palese contro le donne che non può non interrogare ogni cittadino, oltre che, naturalmente, gli esperti: economisti, sociologi, demografi, esperti di medicina riproduttiva. Un fenomeno scivoloso, mutevole, che sfugge a censimenti e statistiche precisi e che tocca in primo luogo i paesi emergenti dell’Estremo Oriente, in particolare la Cina del “figlio unico” e l’India la cui società è fondata ancora su uno statuto patriarcale. Fenomeno che, secondo la studiosa, nei prossimi decenni condannerà molti uomini a rimanere scapoli. Non solo. Il gendercide si manifesta un po’ in tutto il mondo, a macchia di leopardo: ne sarebbero toccate anche la Corea del Sud, Taiwan, l’Albania e diversi altri paesi dell’Est Europa. Il fenomeno è comunque rintracciabile attraverso il confronto della percentuale di femmine e maschi nati in un anno, essendo il rapporto fisiologico (in inglese sex ratio) pari a 100 bambine per 105 bimbi. In Cina, secondo i dati dell’Accademia cinese delle scienze sociali, il rapporto è stravolto: 100/124; in India siamo vicino a quei livelli: 100/120. Totale: nel momento in cui fa capolino sulla scena del mondo il 7miliardesimo essere umano, ci sono 57 milioni di uomini in più rispetto alle donne. Solo l’Europa è in controtendenza, con più donne che uomini. I dati offerti dalla Meldolesi sono confermati dalle statistiche presentate quest’anno dal World’s Women 2010: trends and statistics, un’analisi dei dati sulla condizione femminile nel mondo nel 2010 curata dall’Onu. Ma sono stati anticipati ben una ventina di anni fa da Amartya Sen, Nobel indiano per l’economia nel 1998 e professore alla Harvard University di Boston.
L’Italia nel 2009, secondo quanto riferisce Anna Meldolesi nel suo recente libro Mai nate (Mondadori), ha avuto un sex ratio regolare (106/100). Nell’Europa allargata a Est, tuttavia, i nudi dati dicono che non si è esenti dal fenomeno della selezione di genere. In particolare alcuni paesi dell’Est – Albania, Armenia, Azerbaijan e Georgia – presentano numeri fuori norma: il rapporto è di 112/100 per i primi tre paesi, 110/100 per la Georgia. Dati preoccupanti se lo scorso 9 settembre l’Europa ha deciso di intervenire con la bozza di risoluzione intitolata “Prenatal sex selection”, approvata da una commissione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nella bozza si invitano i 47 Stati membri a promuovere l’adozione di provvedimenti legislativi volti a limitare l’indicazione del sesso del nascituro ai genitori richiedenti per evitare selezioni di genere. Per inciso negli Stati Uniti  – secondo la Meldolesi, che cita una ricerca della Università della California –, molti medici hanno già adottato la pratica di non rivelare il sesso del feto fino alla 20ma settimana di gestazione.

La ricercatrice nel suo libro cita vari episodi legati a questo fenomeno e saliti all’onore delle cronache italiane. Dal frequente ricorso da parte delle donne immigrate al Cycotec – una pillola antiulcera usata per abortire con rischi per la salute delle donne – all’arresto, nel marzo 2010 a Rovigo, di una donna cinese per esercizio abusivo della professione medica e procurato aborto, fino alla chiusura di una clinica improvvisata a Milano nel gennaio precedente a seguito di un servizio delle Iene. Anche in Toscana ­– terra di approdo di molti immigrati dall’Estremo Oriente e in particolare dalla Cina – le statistiche demografiche sembrano lasciare spazio a pochi dubbi. Il quotidiano Italia Oggi del 16 novembre scorso parla di 500 bambine mancanti all’appello per alcune comunità di immigrati nel triennio 2008-2010: in quell’area la comunità cinese avrebbe un rapporto tra i nati dei due sessi di 110/100 a netto favore dei maschi; i romeni arriverebbero addirittura a un sex ratio di 113/100, gli albanesi a 115/100 e gli indiani a un incredibile 141/100.
Degli “aborti selettivi” ha parlato qualche giorno fa a Brescia anche Giulia Galeotti, storica e saggista, collaboratrice dell’Osservatore Romano e del quotidiano dei vescovi Avvenire. Nell’incontro dal titolo “Gender”, organizzato a Brescia nell’ambito del ciclo di conferenze intitolato “Di donna in donna” e coordinato dalla dottoressa Elisabetta Pittino, consigliera nazionale del Movimento per la Vita, la ricercatrice ha rivelato che «in Italia negli ultimi 4 anni, per ogni 100 neonate, ci sono stati 109 maschi. Percentuale alta, ma non altissima, rispetto alla norma di 105. Se però si considerano solo le nascite dei terzogeniti e dei successivi, si scopre che il dato sale a 119 maschi». Il dato sembra riferirsi proprio alle famiglie degli immigrati, che lasciano al caso il primo e il secondo figlio, ma sul terzo e i seguenti – se è femmina – sono implacabili. E abortiscono. Un caso per tutti: «Nella comunità indiana per 116 maschi ci sono 100 femmine, rapporto che passa a 100/137 dal terzogenito in su».

Se certe popolazioni usano il pugno di ferro contro i feti-bambine, altre, con una migliore “reputazione”, si mettono invece i guanti. Ma il risultato non cambia. «Nelle cliniche americane dove si pratica la fecondazione artificiale la selezione embrionale in base al sesso sta diventando una realtà sempre più frequente», ha spiegato la Galeotti facendo riferimento alla pratica dell’impianto in utero di un numero elevato di embrioni ottenuti con la tecnica della fecondazione in vitro. Salvo poi, in seguito all’analisi del Dna, provvedere alla “riduzione”: «Non v’è alcun modo per sapere quante ne vengano eseguite, ma secondo uno studio dell’Università dell’Illinois il 41% delle donne americane che ricorrono alla provetta optano per effettuare la selezione in base al sesso, laddove questa non presenti costi aggiuntivi». Insomma: in base al sesso (ma anche alle eventuali malattie) si sceglie quale feto far nascere. E chi se ne importa delle conseguenze dell’aborto, oltre che sulla bambine mai nate, anche sulle loro madri. Lo documenta bene il recente libro Maternità interrotte (San Paolo), ripreso da un ampio servizio sul numero 48 di Famiglia Cristiana, dove si spiega come abortire può in molti casi provocare quella che si definisce “sindrome post-abortiva”. «Sono molti i blog di donne disperate per quanto hanno fatto», ha constato a questo proposito amaramente la Galeotti.
Il gendercide è solo un capitolo – sicuramente uno dei più drammatici – della discriminazione di genere nel mondo. La domanda che si pone urgentemente è allora questa: come ridurre la differenza fra uomini e donne per mettere finalmente la parola “fine” alla discriminazione dei primi sulle seconde? Una teoria che – su presupposti però antropologicamente errati e quindi inaccettabili – vorrebbe contrastare la discriminazione di genere e che si sta imponendo a livello mondiale da almeno un paio di decenni è la cosiddetta teoria del “gender”. «La teoria del gender sostiene che non esistono differenze biologiche tra femmine e maschi, essendo la femminilità e la mascolinità costruzioni culturali indotte, dalle quali bisogna liberarsi per stabilire un’autentica uguaglianza tra gli esseri umani», ha spiegato Giulia Galeotti nel corso della conferenza di Brescia dall’omonimo titolo “Gender”. Quello che si cerca di far passare è l’equazione: nessuna differenza sessuale uguale nessuna discriminazione. E se non esiste nessuna differenza sessuale si aprono le porte a una “costruzione personalizzata”, individualmente determinata a prescindere dal proprio sesso biologico, della propria identità sessuale: eterosessuale, omosessuale, lesbica, transessuale, bisessuale fino a quella “queer”. Identità fluttuante, mobile, revocabile anche più volte nella propria vita. Una vera e propria “mutazione genetica” dei cardini sociali su cui è fondata la società: matrimonio, famiglia, procreazione, generazioni.

Queste idee sono solo in apparenza bizzarre, come spiega con dovizia di particolari la stessa Galeotti, una delle maggiori esperte italiane su questa tematica, nel suo libro pubblicato l’anno scorso dal titolo Gender. Genere (VivereIn). Nel libro si cita il caso di uno dei primi sostenitori della teoria, il dottor John Money (1921-2006), chirurgo del Johns Hopkins Hospital di Baltimora, che applicò al piccolo David Reimer –  uno dei due gemelli omozigoti nato il 22 agosto 1965 a Winnipeg rimasto castrato a seguito di un errore medico durante l’intervento di circoncisione – la teoria del gender, proponendo ai genitori del piccolo di educarlo – a quel punto – come se fosse una bambina. La nuova identità, mai accettata, ha portato però al tragico esito del suicidio dell’uomo, ormai 38enne, nel 2004.

Benedetto XVI, riferendosi alla teoria del gender il 22 dicembre 2008 in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana, si è così espresso: «Quanto viene espresso con il termine “gender” si risolve nell’auto-emancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo di ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore».
E il compianto padre gesuita Piersandro Vanzan, scrittore de La Civiltà Cattolica e scomparso lo scorso 14 novembre, in un articolo apparso oltre due anni fa su quella rivista, ha scritto: «Grande è stata, negli ultimi anni, la responsabilità dell’Onu e soprattutto dell’Unione Europea nel diffondere l’ideologia del gender, che, sviluppatasi nelle due Conferenze Onu del Cairo (1994) e di Pechino (1995), ha progressivamente contaminato vari documenti successivi». L’articolo, che rappresenta un’accessibile e precisa sintesi di questa teoria, cita anche la Lettera alle donne di Giovanni Paolo II, scritta proprio in occasione della Conferenza di Pechino per esprimere il punto di vista della Chiesa: «Femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del “maschile” e del “femminile” che l’umano si realizza appieno». Non annullamento dell’identità sessuale, dunque, ma riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti. Nella differenza.


Bibliografia di base:
  • Giulia Galeotti, Gender. Genere, VivereIn, 2010.
  • Pontificio Consiglio per la Famiglia, Gender. La controverse, Pierre Téqui Editeur (testo francese), 2011.
  • Piersandro Vanzan, “Gender” e rapporto uomo-donna, in Civiltà Cattolica, Quaderno 3810 (21 marzo 2009) – 2009 I 550-562.
  • Dossier Fides (clicca qui)
  • Dale O’Leary, Maschi o femmine? La guerra del genere, Rubbettino, 2006.
  • Chiara Atzori, Il binario indifferente. Uomo, donna o GLBT?, Sugarco, 2010.