Amir ha 9 anni. Ha subìto diverse amputazioni al piede destro e ha il corpo ricoperto di bruciature, la sua spalla destra è salva per miracolo. Come lui. Sopravvissuto a due bombardamenti nella città di Deir al Balah, 14 km a sud di Gaza City, Amir oggi si trova in un posto sicuro, al Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano, in provincia di Udine, insieme ai suoi due fratelli più grandi e sua madre Heba. Un altro dei suoi fratelli, il maggiorenne, è rimasto nella Striscia di Gaza con suo padre.

«Quando la nostra casa è stata bombardata per la prima volta, ci trovavamo in una stanza che per fortuna non è stata colpita», dice Heba Abo Aisha, 40 anni, madre di Amir. «Ricordo di aver sentito un silenzio assordante a cui è seguito un bombardamento, e poi fumo e fiamme. Quando ho cominciato a sentire di nuovo i suoni e i rumori, mi sono guardata intorno e ho visto che eravamo tutti accoccolati in un angolo e c’era una forte confusione che arrivava da fuori. Mi sono alzata e ho visto che Amir aveva la parte destra del viso ricoperta di sangue. Ero terrorizzata, pensavo che avesse perso l’occhio. Poi, solo dopo mi sono accorta che si trattava di una ferita non molto grave come quelle riportate dai miei suoceri, mio marito e il resto della famiglia. I nostri vicini di casa, invece, almeno quindici persone, sono morte».

Dopo il bombardamento di dicembre 2023, Heba, suo marito e i loro figli, rimasti senza casa, si trasferiscono da un parente, nella stessa città. Ma dopo tre mesi, a marzo 2024, mentre è in casa con Amir e l’altro figlio arriva un’altra bomba che, stavolta, colpisce in pieno la stanza in cui si trovano i bambini. «Mi sono lanciata nella stanza per cercare i miei figli, ma non vedevo nulla, c’era fumo. Così ho cominciato a correre da una parte all’altra per chiedere aiuto. Gridavo disperata, li chiamavo “Ali, Amir”, poi, mentre il fumo stava pian piano schiarendosi, mi sono ritrovata Ali in piedi di fronte a me con il viso ricoperto di sangue. Piangeva forte e mi diceva che Amir era morto. Sono andata da lui, l’ho trovato a terra, l’ho tirato su ma non reagiva, quindi mi sono convinta che era morto. Sono uscita in strada con lui in braccio e ho visto i buchi per tutto il corpo, riuscivo a vedere anche l’osso della mano. È arrivato uno dei miei vicini di casa, cercava di calmarmi e dirmi di non dare per certo che Amir fosse morto. Così, lo abbiamo caricato in una macchina e siamo andati in ospedale».



Il racconto di Heba ha i dettagli del terrore. Attimo dopo attimo, le famiglie, le donne, i bambini palestinesi vivono una quotidianità scandita fra la persecuzione sistematica e la morte. Amir ha dovuto attendere alcuni giorni prima di essere curato perché i feriti in ospedale erano troppi. Aveva la parte destra del corpo ricoperta di schegge, il cranio, la spalla e la schiena gravemente feriti. I medici hanno applicato delle placche alla spalla e al piede ma nei giorni successivi le ferite hanno cominciato a emanare cattivo odore. Così, è stato trasferito all’ospedale di Rafah accompagnato da suo padre mentre Heba, sua madre, attendeva il lasciapassare per varcare il valico e portare Amir in Egitto viste le sue gravi condizioni. Una volta in Egitto, grazie a Gaza Children’s Relief e Save the Children, Amir è stato trasferito all’ospedale pediatrico “Burlo Garofalo” di Trieste. «Quando siamo arrivati a Trieste era l’una di notte del 30 aprile 2024. Ad accoglierci in ospedale c’erano i medici, gli infermieri e la comunità islamica. Eravamo sette famiglie provenienti dalla Striscia di Gaza», dice Heba facendo profondi respiri. «Siamo poi rimasti a Trieste due mesi e a metà giugno abbiamo ricevuto la notizia che il Centro Balducci poteva accoglierci. Proprio il giorno in cui ci siamo trasferiti qui a Zugliano» , chiude gli occhi mentre le lacrime le rigano il viso, «un altro bombardamento ha colpito la casa dei miei genitori e sono morti mio padre e mio fratello».

«Quando Amir è arrivato con la madre e gli altri due fratellini a Zugliano si è respirato fin da subito la fatica e la sofferenza di quel vissuto. Eravamo tutti impacciati, ma è bastato che un ragazzino ucraino lanciasse un pallone tra i nuovi ospiti per sciogliere la tensione, far spuntare i sorrisi e iniziare l’accoglienza col piede giusto: è così partito l’inserimento nel centro e a scuola, e l’apprendimento in poco tempo della lingua italiana», aggiunge don Paolo Iannaccone, presidente del Centro Balducci. «I bambini sono in potenza una rivoluzione, sono una forza di rinnovamento incredibile! E mi danno fiducia che un altro mondo basato sulla convivialità delle differenze sia davvero possibile».

(Foto in alto di Valentina Barile: Amir, 9 anni, con la bandiera palestinese)

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