Il Macbeth inaugurale della stagione lirica romana è stato, come all’ultimo Festival di Salisburgo, un veni vidi vici di Riccardo Muti, il quale sempre più tende a identificarsi con quest’opera giovanile di Verdi al punto che diventa difficile sottrarsi al fascino esercitato dalla sua bacchetta. Fra i momenti particolarmente felici cito la tensione emotiva del finale del primo atto, sospesa fra ripiegamenti intimistici e irresistibili esplosioni sonore, e il suggestivo accompagnamento del brindisi del secondo atto, che si afferma, anche grazie a Muti, come una delle pagine più ispirate del primo Verdi. 
La regia di Peter Stein – inserita nello spettacolo modernamente tradizionale allestito a Salisburgo – è risultata consona alle esigenze di Muti, ma, quel che più conta, perfettamente in linea con la chiarezza e la credibilità dell’esposizione. La compagnia di canto non ha nuociuto alla compattezza di questo Macbeth. L’uruguayano Dario Solari è un protagonista che dà il meglio di sé nei primi due atti, dove occorrono soprattutto dizione ficcante e attenzione al gioco di contrasti e sfumature, salvo poi trovarsi alquanto a disagio nei momenti in cui occorre invece un maggior peso vocale. Riccardo Zanellato è un Banco puntuale; i due tenori, Antonio Poli (Macduff) e Antonio Corianò (Malcolm), cercavano di sopperire con la professionalità ai loro precisi limiti di timbro e di finezza. Su tutto e tutti ha dominato la russa Tatiana Serjan, timbro non particolarmente gratificante, ma in compenso dotata di quella lucida aggressività che tanto si addice alla malefica Lady.