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di Nicoletta Bortolotti
Nastya è diminutivo di Anastasia, nome greco che reca l’etimologia della resurrezione. Fardello o responsabilità? Nastya, ucraina, “piccola risorta”, quattro anni di vita e tre di guerra contro una forma grave di leucemia linfoblastica. E contro gli invasori russi che papà Artem combatte nel Donbas, mentre cerca fondi per pagare le cure di sua figlia. Originaria di Mykolaiv, la città del grano nel sud dell’Ucraina, Nastya si reca in Israele nel 2022 con la madre Maria di trent’anni, la nonna Olena di cinquantaquattro anni e due cugini. Il padre e il nonno devono rimanere in Ucraina perché lo stato di guerra non permette agli uomini che non abbiano ancora compiuto i sessant’anni di lasciare il Paese.
Le cure sembrano avere effetto, il tumore che mastica il sangue della bambina non è del tutto sconfitto, ma decide di collaborare. Si siede insieme ai medici al tavolo della trattativa. Perché i medici, quelli bravi, lo sanno che alla fine sono sempre loro, le neoplasie proliferanti, a decidere.
Ma c’è qualcuno che, invece, non vuole collaborare. C’è una terza guerra da combattere che attende la piccola Nastya all’incrocio di una cameretta o di un parchetto con gli scivoli, le altalene e le macchinine di plastica rosa che spingi con i piedi, un incrocio chiamato futuro, ci sono cinquecento chili di esplosivo di un missile iraniano lanciato contro Israele, a Bat Yam, a sud di Tel Aviv, e caduto sul condominio dove Nastya abita con la sua famiglia. Ucraina, non ebrea.
E così accade che un pugno di cellule tumorali che forse avevano deciso di smetterla di nutrirsi del sangue di una bambina debbano vedersela con un nemico ancora più implacabile. E accade che si possa fuggire da una guerra per combattere una malattia ed essere trovati e travolti da un’altra guerra. Per i medici che avevano in cura Nastya la morte si chiama “leucemia”, per i Greci “fato”, per i cristiani, gli ebrei, i cristiani ortodossi e i musulmani “resurrezione”.
Ma l’unico sepolcro da cui ancora oggi ci si chiede se Dio possa risorgere insieme a una bambina, insieme a Nastya, è il luogo non luogo dove vanno a morire gli innocenti. In principio era il logos, il verbo. Adesso, invece, c’è il piccolo corpo di Nastya senza più verbi o aggettivi.
La guerra non rade al suolo soltanto città e popoli, ma il pensiero e il linguaggio. I luoghi dove le ombre cannibali che si agitano dentro di noi possano essere viste, comprese, sfamate, prima che trabocchino all’esterno per divorare vite innocenti. Il linguaggio universale che, nel pronunciare un solo nome, Nastya, smarrisce tutti i nomi. Balbetta e mostra la sua insufficienza. Non può più lasciarsi abitare dai perché.
Quando l’insegnante di scrittura è la malattia e la voce narrante non è quella della guerra ma di due guerre, la vita di una bambina di sette anni è un romanzo criminale che annoda il respiro. Anastasia significa “resurrezione” e Ucraina “terra a margine”. Anche i bambini e le bambine sono terre a margine. A margine dell’amore e di altre cose che non si capiscono. Come per esempio che Nastya aveva sette anni.
(Foto Ansa: un edificio in Israele distrutto da un missile iraniano)



