In questi ultimi decenni non sono stati pochi i presbiteri (e anche qualche vescovo) che hanno rinunciato al loro ministero nella Chiesa per sposarsi e fare una famiglia. Persone che, per una buona parte, avrebbero desiderato poter continuare il loro servizio di ministri ordinati. Dopo il concilio Vaticano II (1962-1965), e soprattutto dopo il rescritto della Congregazione del Clero del 23 settembre 2019, l’autorità ecclesiastica non colpisce più queste persone con scomuniche e altri generi di condanne, ma, dopo una seria valutazione dei singoli casi, viene concessa l’uscita dallo stato clericale con i relativi obblighi e quindi anche l’eventuale celebrazione del sacramento del matrimonio e la possibilità di «svolgere servizi utili alla comunità cristiana, mettendo al suo servizio i propri doni e i talenti ricevuti da Dio» (n. 5). Anche le scelte di vita più importanti sono soggette alla fragilità e al ripensamento. Non sono sufficienti anni di seminario, soprattutto se in giovanissima età, per garantire la piena realizzazione di una scelta così totalizzante. Il che vale anche per la scelta di vita matrimoniale. Non senza ragione nello scorso mese di giugno, per desiderio di Papa Francesco è stato pubblicato un Direttorio con itinerari catecumenali per la preparazione al matrimonio cristiano. Il che favorirà una maggiore consapevolezza degli impegni che si assumono, ma non potrà evitare del tutto la possibilità di un ripensamento di fronte a nuove situazioni. A questo punto giunge puntuale la domanda: perché chi ha ricevuto il sacramento dell’Ordine può “tornare indietro” e chi invece è sposato rimane legato indissolubilmente? Due pesi e due misure? No. Bisogna tener presente che il sacramento dell’Ordine non è indissolubilmente legato al celibato. Questo è una disciplina ecclesiastica propria della Chiesa Romana occidentale, introdotta da alcuni sinodi locali fin dal IV secolo, non senza condizionamenti di carattere monastico e filosofico che consideravano le realtà corporali un ostacolo alla vita cristiana.

Questa prassi è diventata norma generale con il secondo concilio Lateranense (1139) e si è consolidata con il concilio di Trento (1545-1563) con i frutti di santità e di dedizione caritativa che ben conosciamo. La Chiesa d’Oriente, compresa quella cattolica di rito orientale, non ha questa disciplina e ha mantenuto fino ad oggi sia il clero coniugato che quello celibe. Pertanto la differenza disciplinare in questione sta nel fatto che il celibato è un “consiglio evangelico”, mentre il matrimonio sacramentale indissolubile è un comando del Signore che la Chiesa non si sente di infrangere (cfr. Matteo 19, 3-9). Con tutto ciò la Chiesa del Vaticano II, che condanna il peccato ma non il peccatore, pur ribadendo le caratteristiche del matrimonio cristiano, non scaccia dal suo seno chi non è riuscito a realizzare pienamente l’ideale evangelico, ma come un ospedale da campo si prende cura dei feriti perché, sebbene con cicatrici, possano realizzare al meglio possibile, e senza ostracismi, la loro vita umanamente e cristianamente (cfr. papa Francesco, Amoris Laetitia, cap. VIII).