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Era a Teheran, nel febbraio 1979, quando l’ayatollah Khomeini, dopo anni di esilio, rientrò in Iran per prendere il potere. A Beirut, nel 1982, documentò l’ingresso delle truppe israeliane e la guerra civile libanese. Fu il primo fotoreporter italiano a realizzare un servizio nella Baghdad martoriata dall’operazione Desert Storm (Tempesta nel deserto): accadde nel 1991. Ma ha anche seguito la sanguinosa disgregazione della Jugoslavia (che lo portò più volte dentro la Sarajevo assediata), il calvario del Rwanda, il dominio dei Talebani, i combattimenti in Irak e in Afghanistan. Nino Leto, milanese, è stato uno dei più affermati fotoreporter italiani.
È morto il 29 dicembre. Aveva appena compiuto 77 anni. Nino Leto aveva cominicato giovanissimo, all’agenzia Farabola, per poi passare al quotidiano Il Giorno e al settimanale Annabella. Nel 1984, il picture editor Mauro Galligani lo volle nel prestigioso staff di Epoca. Ha lavorato anche con grandi firme, come Oriana Fallaci. Nel 1989, l’allora direttore don Leonardo Zega lo assunse a Famiglia Cristiana. Per il nostro giornale ha realizzato reportage su vari fronti con i nostri inviati Pietro Radius, Guglielmo Sasinini, Alberto Bobbio, Fulvio Scaglione, Francesco Anfossi, Luciano Scalettari, Paolo Perazzolo, Roberto Zichittella e Alberto Chiara.
Cronista di razza, coglieva l’essenziale e lo mostrava così com’era, senza nulla aggiungere. «Una foto è tale quando ha forza d’urto; basta un’immagine, spesso addirittura un volto o un particolare, per dire tanto, se non tutto», amava ripetere lui, uomo più bravo con le macchine fotografiche che con i discorsi. Carattere legnoso, cuore d’oro, ironia da vendere, Leto è stato, per molti di noi, un indimenticabile compagno di strada e un maestro di giornalismo. Arrivederci Nino.



