A che punto è il lavoro in Italia? La buona notizia è che negli ultimi quattro mesi abbiamo avuto 559 mila contratti di lavoro in più. A trainare sono i comparti del turismo, del commercio, della ristorazione e delle attività immobiliari. La cattiva notizia è che di questi 415 mila sono a tempo determinato e dunque rinnovabili di anno in anno per tre anni. I dati offerti dall’Inps confermano il fallimento del Jobs Act nell’incentivare il posto fisso. L’illusione che la riforma del lavoro renziana favorisse contratti a tempo indeterminato, abbondantemente sostenuta e diffusa dall’allora premier Matteo Renzi, si è ormai dissolta come una bolla di sapone. In compenso non abbiamo più l’articolo 18 e il dipendente può essere licenziato per motivi economici dal datore di lavoro. Ma senza quei benefici che erano stati ampliamente sbandierati, primo tra tutti un maggiore dinamismo del mercato del lavoro e tante nuove assunzioni a tempo indeterminato in più.

Il contratto a tempo determinato - che significa precariato -  è tornato a essere la forma più utilizzata dalle imprese, dopo il boom di posti fissi del 2015. Il motivo è molto semplice: sono finiti gli sgravi contributivi varati per quell'anno nella Manovra, che incentivavano il datore di lavoro ad accedere al cosiddetto contratto a tutele crescenti. Oggi quegli sgravi non ci sono più e quasi sempre l’imprenditore ha tutto l’interesse a mantenere un rapporto precario. Finiti gli incentivi si è tornati alla normalità, anzi al precariato. Che significa impossibilità di fare carriera (se ogni anno si viene licenziati) e soprattutto di progettare la propria vita, di metter su famiglia (un mutuo, una casa, una matrimonio, dei figli da mantenere).
Lo stesso presidente dell’Inps Tito Boeri lo aveva previsto - tre anni fa -  quando parallelamente al contratto a tutele crescenti era stato introdotto il cosiddetto decreto Poletti, che ridefiniva il contratto a tempo determinato. La Cassandra Boeri - nel clima di ottimismo generale diffuso dal Pd e dal governo -  spiegava che il decreto spiazzava le altre forme contrattuali (non solo il contratto a tempo indeterminato, ma anche l’apprendistato) e faceva un esempio piuttosto indicativo: alla notizia della maternità di una lavoratrice il datore di lavoro – che non è tenuto a indicare le ragioni tecniche, organizzative e produttive della cessazione del rapporto -  può semplicemente non rinnovare il suo contratto e lasciarla a casa per sempre. Fine.

Va da sé che almeno abbiamo messo fine alla retorica della flessibilità, cui siamo stati sottoposti all’inizio del millennio per giustificare la distruzione del posto fisso e una riforma del lavoro che nemmeno il Centrodestra ha avuto il coraggio di varare. Una retorica che serviva solo ad avvantaggiare i propugnatori del contratto a termine, che assimila il lavoratore più a una merce che a una persona, qualcosa da impiegare e rottamare a seconda delle convenienze della produzione e del mercato. In antitesi totale - sia detto per inciso - con la dottrina sociale della Chiesa.