Il monte si chiama Oret, che significa “montagna del vento”. Lo si vede da molto lontano, il suo profilo si staglia netto. È l’unica, in un vasto raggio di questa parte remota della terra degli Acholi. Cinque anni fa le sue pendici erano costellate da una distesa di capanne circolari, quelle tradizionali ugandesi, fatte di rami e mattoni di fango: 45 mila persone, forse 50 mila, nessuno le ha mai censite.
L’Oret ospitava uno fra le decine di campi profughi, nei quali l’esercito governativo aveva radunato la popolazione per cercare (con scarsi risultati, per la verità) di proteggerla dalle scorrerie dei ribelli dell’Lra, i guerriglieri capitanati dal sanguinario Joseph Kony.
«Nei campi la gente aveva perso ogni rispetto reciproco», dice suor Mary Tarcisia Lakot, dell’ordine delle Piccole sorelle di Maria Immacolata e direttrice della scuola del Centro Santa Bakhita. «Erano abbrutiti dall’impotenza, dagli abusi subiti, dalla promiscuità forzata. Erano ridotti ad animali. Il nostro primo impegno è stato quello di ridare loro speranza nella vita».
Oggi quelle miserabili capanne sul monte sono un ricordo, non ce n’è più una. Appena più sotto, dove finisce la pianura, c’è la missione comboniana e lo storico ospedale, fondato nel 1956 dal Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, medico e missionario comboniano, e a lui intitolato.
Qui accanto è nato il Santa Bakhita. Un progetto iniziato dalla tenacia di una giovane donna Acholi che voleva fare qualcosa per la sua gente, Prisca Ojok, e dalla determinazione di un esperto della Cooperazione italiana, Cesare Forni, che aveva capito – quando ancora la guerra era in corso – quanto fosse urgente “ricostruire” un’intera generazione di ugandesi prima ancora che le case e le strutture.
Prisca era nel nostro Paese da molti anni, dal 1992, oggi è cittadina italiana. «Ma quando ho potuto ritornare qui dopo tanto tempo», racconta, «mi sono resa conto che la mia Kalongo doveva ricominciare da zero. Le mie vacanze le passavo qui. Ho riportato ai propri villaggi d’origine 800 persone».
Poi l’incontro con Forni, e l’idea di ripartire da coloro che più avevano sofferto durante la guerra: le ragazze e le donne. Finiti i lavori per la costruzione del centro, nel 2007, Prisca, Suor Mary Tarcisia (diventata una delle colonne del Centro) e gli altri collaboratori hanno cominciato a girare per i villaggi e i campi degli sfollati per individuare i casi più disperati: «Le studentesse che oggi vede ridere e scherzare nelle loro divise bianche e blu erano quasi tutte sole, abbandonate a se stesse, spesso con figli frutto di violenze», spiega. «Erano profondamente traumatizzate, ma soprattutto rassegnate a non avere un futuro».
Sono tutte fra i 18 e i 23 anni. Oltre a completare gli studi interrotti dalla guerra, imparano un mestiere: sartoria, tessitura, informatica, segreteria d’azienda. «Alcune», aggiunge Prisca, «rapite giovanissime, non hanno gli strumenti culturali per fare i corsi triennali. Così abbiamo pensato per loro una preparazione più breve, di due anni, che permetta subito di lavorare».
Per quasi cinque anni il Centro è stato sostenuto dai fondi della Cooperazione Italiana. Ora il progetto è finito, nel marzo 2010, e l’opera si sostiene con l’aiuto di donazioni private e il sostegno a distanza. A questo scopo è nata anche un’associazione Mar Lawoti, che in lingua Acholi significa “Amatevi gli uni gli altri”, con sede a Bassano del Grappa, la cittadina dove vive Prisca.
«Ma stiamo lavorando anche per l’autosufficienza», aggiunge Prisca. «Perciò abbiamo realizzato la fattoria, la falegnameria, il frantoio per l’olio, la produzione di tessuti e prodotti d’artigianato. Tutto con un pugno di collaboratori e le nostre diplomate della scuola. Il prossimo passo sarà un piccolo ristorante. L’obiettivo è che il Centro Santa Bakhita riesca a reggersi con le sue gambe».
Kalongo-Kampala, Uganda
Nel raggio di decine di chilometri è il solo ospedale. Oggi si chiama “Ambrosoli Hospital” in memoria del suo fondatore, il Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, il comboniano e medico che l’ha fondato nel 1956 e che vi ha passato tutta la sua vita missionaria fino alla morte, nel 1987.
Un ospedale che ha attraversato tutta la storia recente del Paese, le dittature feroci di Idi Amin e di Obote, la guerra di liberazione di Yoweri Museveni (l’attuale presidente, in carica ormai da 24 anni). E anche la guerra civile dell’Lra, nata proprio in queste terre, dato che Joseph Kony e i suoi seguaci erano Acholi.
«L’Ambrosoli Hospital non ha mai fermato la propria attività, neanche nei momenti più difficili», spiega suor Vincentina Achora, anche lei dell’ordine delle Piccole sorelle di Maria Immacolata, come la direttrice della scuola del Santa Bakhita. «Quando infuriava la violenza dei ribelli, ogni notte ospitavamo da 8 a 11 mila persone: venivano a dormire all’interno dell’ospedale per essere un po’ più sicuri».
Oggi ha 320 posti letto. Nel raggio di 30 chilometri è l’unica struttura ospedaliera, ma per la sua fama arrivano pazienti persino da Kampala. Suor Vincentina di problemi ne deve risolvere tanti, ogni giorno. Un esempio? L’approvvigionamento di medicinali e materiale di consumo: «Non abbiamo un camion», dice. «E le strade sono quelle che sono. Per cui dobbiamo andare avanti e indietro da Kampala con il fuoristrada. Otto-nove ore di viaggio ogni volta».
Molte apparecchiature vanno sostituite, e quando qualcosa si guasta per la riparazione talvolta occorre andare fino a Nairobi, in Kenya. Inoltre i posti della pediatria sono insufficienti: talvolta non bastano e le mamme con i loro bambini ricoverati sono costrette a dormire fuori. «La gente qui è molto povera», conclude suor Vincentina. «Tutte le prestazioni non totalmente gratuite. Anzi, spesso vediamo che le condizioni sono estreme, al momento della dimissione diamo vestiti, sapone e beni di prima necessità».
Kampala-Kalongo, Uganda
Kampala e’ una cosa, il resto dell'Uganda un'altra. Dal traffico perennemente intasato e immerso nella nebbiolina grigia di smog che avvolge la capitale siamo saliti in direzione Nord, verso Acholiland (la terra degli Acholi) e la Karamoja. Il nastro d'asfalto – e poi della rossa pista di terra battuta – corre immerso nel verde del bush, la boscaglia ugandese, nel continuo sali-scendi di dolci colline.
Occorrono molte ore di fuoristrada per arrivare nel “profondo Nord”. Entrando nella regione degli Acholi, si incrociano una dopo l'altra le città e i paesi divenuti tristemente famosi durante la guerra civile: Lira, Soroti, Pader, Gulu, Kitgum, fino a Kalongo, la nostra meta.
Ancora nel 2008, percorrere questa strada di notte sarebbe stato un rischio mortale. Fino a due anni fa in queste terre impazzava il Lord Resistence Army, l'Lra (Esercito di resistenza del Signore), il movimento di guerriglia guidato dal pazzo visionario Joseph Kony che fin dal 1986, quando in Uganda prese il potere Yoweri Museveni, l'attuale presidente, ha tenuto sotto scacco l'esercito regolare e seminato terrore e morte per centinaia di migliaia di persone.
Negli ultimi cinque anni di guerra i ribelli avevano costretto milioni di ugandesi a vivere in campi di sfollati sotto la custodia (peraltro pochissimo efficace) dei soldati. L'Lra ha commesso ogni sorta di efferatezza: saccheggi e stupri, incendi dei villaggi, massacri indiscriminati. Avevano elevato a sistema il rapimento dei bambini e delle bambine, per trasformare i primi in baby-soldier, e per fare delle seconde le piccole “prostitute da campo” o le schiave tuttofare (anche combattenti, in molti casi).
Un programma preciso di reclutamento e feroce addestramento, che comportava spesso l'”iniziazione” di partecipare al primo combattimento andando a saccheggiare e bruciare il villaggio d'origine del nuovo bambino-soldato. Addestramento selvaggio, uso di droghe, libertà di commettere ogni sorta di violenza, l'Lra di Kony ha distrutto un'intera generazione: sia quella dei carnefici, sia quella delle vittime, costrette a vivere nel terrore e sradicate dal proprio villaggio.
Due anni fa è finita. Kony ha accettato di intavolare un dialogo di pace. L'accordo non è mai giunto, ma la lunga trattativa ha ottenuto di allontanare i ribelli dell'Lra dal territorio e spostarli oltreconfine (ora seminano morte fra Repubblica democratica del Congo e Sudan). Con la pace, la popolazione lentamente torna nei propri villaggi e prova a ricominciare una vita normale. Fra enormi problemi e un tessuto sociale tutto da ricostruire. Perciò siamo venuti a vedere cosa si sta facendo a Kalongo.
Kalongo, Nord Uganda
Quello che ha passato Alice è persino difficile da ascoltare. È una delle 206 ragazze accolte nel Centro Santa Bakhita di Kalongo. Sono tutte vittime della guerra civile che per 23 anni ha insanguinato il Nord Uganda. Sono giovani rapite dai ribelli, alcune quando ancora erano bambine di 9 o 10 anni. Tutte hanno subìto violenze sessuali e di ogni altro genere. Una parte di loro sono state obbligate ad addestrarsi e a combattere, e oltre che vittime sono anche diventate carnefici.
Il centro di Kalongo è nato nel 2005 per volontà di Prisca Ojok, ugandese naturalizzata italiana, e di Cesare Forni, allora esperto della Cooperazione Italiana di Kampala e oggi volontario al centro. Il Santa Bakhita oggi è una grossa realtà: oltre alla cura e al reinserimento delle 206 ragazze, fa corsi di alfabetizzazione per un migliaio di donne; ha creato due scuole materne, una per 600 e l'altra per 400 bambini; insegna un mestiere a queste giovani donne: taglio e cucito, tessitura, ristorazione, segreteria, informatica; gestisce un'azienda agricola su un terreno di oltre 450 acri.
Le ragioni che hanno spinto Prisca e Cesare Forni a realizzare tutto ciò si comprendono ascoltando la vicenda di Alice Lakot, oggi ventitreenne con due bambini, il più grande di 5 anni, il piccino di pochi mesi. È fra le studentesse di taglio e cucito. Voce incolore e sguardo fisso nel nulla, racconta.
«Sono stata rapita dai ribelli nel 2004, a Wallrogo, il mio villaggio, non lontano da qui. Avevo 16 anni. Ero nel campo a lavorare. Sono stata rapita insieme a mia sorella. I miei genitori e il marito di mia sorella sono stati uccisi subito. I ribelli mi hanno violentata quello stesso giorno. Poi mi hanno portata via con loro. Mia sorella non l'ho più vista. E non l'ho mai più rivista. Dopo sei anni non ho molte speranze che sia viva».
«Gli abusi sessuali erano continui, anche in pubblico, davanti a tutti. Sono rimasta incinta. Quando la gravidanza è avanzata, non potevo camminare veloce. I gruppo di ribelli si spostava in continuazione, e io faticavo a star loro dietro. Allora mi bastonavano, mi prendevano a calci. Qualcuno aveva pietà di me e mi prendeva in braccio. Altrimenti mi avrebbero uccisa».
«Poi sono riuscita a scappare. Dopo quanto tempo? Non lo so. Sei mesi, un anno. Sono tornata qui, in un campo di sfollati. Non avevo più nessuno. Vivevo da sola in una capanna con mio figlio. Una notte mi hanno violentata di nuovo. E ho avuto il secondo bambino».
Alice, oggi ha spesso incubi notturni, si sveglia urlando. In certi momenti si chiude e non parla più per molte ore. Nonostante tutto, Alice ora ha progetti per il futuro: «Voglio fare l'insegnante di taglio e cucito», dice, «Ho due figli e non ho nessuno. Ora sono sicura di poterli mantenere. Non ho più preoccupazioni. Sono sicura che posso farcela, e che inizierò a lavorare appena finita la scuola».
Le 206 ragazze assistite dal Centro Santa Bakhita sono una piccola parte delle miglaia che in Nord Uganda potrebbero raccontare una storia simile.
Kampala, Uganda
Padre Walter Vidori la conosce bene, la Karamoja. Così bene che ne porta su un braccio i segni, di quando s'è preso una fucilata, qualche anno fa, senza mai sapere né la ragione né l’identità del responsabile. Padre Walter è un comboniano, ed è missionario nella remota regione del Nord Uganda da una ventina d’anni. «È una terra poverissima», dice, «ed è sempre stata “dimenticata” dal governo centrale. Terra di pastori e guerrieri, seminomadi, rimane ancora una sorta di mondo a parte. I giovani che se ne vanno a Kampala a studiare, e sono molti, non tornano. E se tornano vengono inghiottiti nuovamente dalla cultura e dal sistema di vita tradizionale dei karamojon».
Dello stesso avviso sono Mauro Modena e Salvatore Creti, due dei cooperanti del Cesvi – Ong di Bergamo – che da molti anni lavorano in Uganda: «Andare in Karamoja è come fare un salto indietro di duemila anni», dicono. «Anche quando nell’Acholiland c’era l’emergenza per la guerra civile, gli indici di povertà della Karamoja erano più gravi».
Il Cesvi ha in corso ben 19 interventi di cooperazione in tutto il Nord, sono spesso progetti integrati che cercano di incidere contemporaneamente sui principali problemi delle due regioni: aumento della produzione agricola, sostegno al commercio dei prodotti, microcredito. Ma anche realizzazione di pozzi d’acqua, interventi sanitari e di lotta all’Aids.
In quest’Uganda dalle due velocità, il Nord è di gran lunga quello più lontano dal raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. Eppure anche l’Uganda, come il Kenya, mostra significativi segnali di miglioramento, anche nelle aree più depresse e più colpite dallo sconvolgimento della guerra civile. «Solo due anni fa la gente del Nord era in gran parte nei campi profughi», aggiungono i cooperanti del Cesvi, «ora si assiste quasi ovunque alla ripresa di attività e al progressivo ritorno a una vita normale».
I dati disponibili per fare un’“istantanea” del Paese, peraltro, sono del 2008, quindi ancora relativi alla fase terminale della guerra. Secondo la Campagna Italiana per gli Obiettivi del Millennio, il 97,2 dei bambini frequenta la scuola primaria, la percentuale di popolazione che usufruisce di acqua potabile è passata – dal 2000 al 2008 – dal 57 al 67%, gli utilizzatori di telefonia mobile sono addirittura balzati dallo 0,52% al 27,02, quelli di internet dallo 0,16 al 7,90%. Inoltre, il Parlamento ugandese ha quasi raddoppiato la presenza di donne deputato (oggi sono il 30,7%).
Anche gli indici relativi alla salute sono in miglioramento, seppure ancora lontani da standard accettabili: la mortalità infantile sotto i cinque anni è passata da 158 a 135 per mille, quella entro l’anno di vita dal 98 all’85 per mille. Infine, nelle aree urbane, nel 2000 tre quarti della popolazione viveva negli slum. Oggi la percentuale è scesa al 63,4%.



