Un po' festa un po' protesta, la Giornata internazionale della donna non dovrebbe proclamare innanzi tutto il diritto alla vita. Invece, anche in Italia, Paese occidentale a pieno titolo, la cronaca terribile dei giorni scorsi quasi obbliga le donne a denunciare e riflettere sulle violenze che molte, troppe ricevono proprio da chi le amava o proclamava di amarle. Quando avviene un omicidio in famiglia, nell'85% dei casi la vittima è una donna, quasi sempre la moglie o la fidanzata dell'assassino. Secondo uno studio della Casa delle donne di Bologna, le donne uccise volontariamente in Italia lo sono nel 22% dei casi da parte di mariti o compagni, per un altro 22% da parte di ex, nel 13% di casi da conoscenti o colleghi. L'assassino, insomma, ha un volto noto.
All'alba di domenica 4 marzo Mario Albanese, alla periferia di Brescia, ha ucciso la ex moglie Francesca Alleruzzo, il nuovo compagno di lei, la figlia di primo letto di Francesca, Chiara, e il suo fidanzatino. Poi ha cercato di spararsi, ma l'arma si è inceppata. In Questura a Brescia dopo l'arresto, chiedeva solo "Mi fate vedere le mie bambine?": le tre figliolette di lui e Francesca che erano in casa e che lui aveva risparmiato dalla terribile vendetta.
Fatti così atroci ci spingono sempre a domandarci quanta follia ci sia negli uomini che picchiano le donne arrivando anche ad ammazzarle, nei violenti entro le mura di casa che all'esterno possono apparire inappuntabili. Ma la risposta dello psichiatra Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze all'ospedale Fatebenefratelli di Milano, non permette di relegare questi comportamenti nelle patologie psichiatriche. Non è la follia a determinarli
Professor Mencacci, gli uomini che uccidone le donne sono malati?
"Nella stragrande maggioranza dei casi questi comportamenti omicidi non sono causati da malattia mentale, non sono risultato di rabbia o stress, nè di un cattivo temperamento. L'uso di alcool o droga, come nel caso di Brescia, è un'aggravante, un fattore maggiormente scatenante, ma la base di tutto sta nella credenza che questi uomini hanno di avere diritto a controllare, a detenere il potere su un'altra persona. Dobbiamo dirlo chiaramente. Non è un problema di malattia. Il problema è che la relazione abusante si basa proprio sulla credenza di una persona ad avere diritto di controllo e di potere su un'altra".
E' un sentimento così forte da portare alla violenza?
"Assolutamente sì. E' il possesso, è il non poter tollerare che l'altra persona non sia sotto il proprio dominio. Ci sono molti luoghi comuni intorno a questo tipo di violenza. Per esempio, che è rara. Non è vero, abbiamo visto che nel nostro Paese viene uccisa una donna ogni due giorni. Non è vero che succeda solo nelle famiglie povere, perché succede in tutte le fasce. Non è vero che sia facile da interrompere, perché una relazione impostata sulla violenza e sull'abuso è difficilissima da interrompere, soprattutto quando ci sono figli. La donna si ritrova vittima del controllo violento spesso in una condizione di isolamento sociale. Ha una bassissima stima di sè. A volte ha una fede religiosa o comunque crede molto nella promessa fatto con il matrimonio. E poi ha un senso di paura, di colpa o, peggio ancora, di ottimismo che la situazione cambi. Gli uomini violenti non cambiano. Molti si domandano perché, allora, non li denuncino: perché spesso c'è senso di colpa, c'è vergogna, c'è paura. I dati ce lo dicono chiaramente: queste donne tentano di lasciare il proprio partner dalle 5 alle 7 volte, prima di riuscirci. E, soprattutto, se tornano indietro, ogni volta l'altro aumenta la violenza. Le donne che si separano da un compagno violento, hanno un rischio maggiore del 75% di venire uccise. Non c'è un caso, in questi omicidi, che non sia stato preceduto da un lungo periodo di stalking. Questi uomini sono pericolosi".
Le leggi contro la violenza sulle donne in Italia ci sono. Cos'altro si può fare?
"Sì, per fortuna ora la legge c'è. Ma non esiste ancora sufficiente attenzione a questo tipo di minacce, soprattutto c'è ancora una certa inerzialità sulla violenza che preannuncia il crimine. Non si interviene molto facilmente, la sensibilizzazione non è ancora abbastanza alta in tutta l'area dei servizi pubblici e sanitari: siamo pubblici ufficiali, abbiamo l'autorità per segnalare determinate condizioni. Credo che sarà anche necessario costituire un'area di polizia specificamente dedicata, come hanno fatto in Spagna. Là avevano un problema analogo al nostro, se non maggiore: a qualcosa è servito. E poi bisogna mettere in sicurezza le donne a rischio, anche se so che non è semplicissimo. Perchè c'è una situazione di violenza crescente, e sta aumentando anche la possibilità di trovare armi da fuoco, il che aumenta il livello di pericolosità. Oggi una donna che si ritrova un marito violento fa moltissima fatica. Sa quando si separano? Soprattutto quando hanno la percezione che ci sia un rischio per i figli. Oppure quando avvertono realmente la paura di morire".
Ci sono passaggi che permettano di vedere un'uscita dal tunnel?
"Credo che i passaggi che stanno avvenendo siano questi: sensibilizzare, facilitare la possibilità di segnalazione e di denuncia. Poi, si tratta di tutelare queste donne e i loro figli, nelle situazioni in cui vanno tutelate. Inoltre, bisognerebbe prestare molta attenzione nel mantenere a distanza uomini che minacciano, controllarli sul possesso di armi di offesa, ancor di più se armi da fuoco. Poi, dobbiamo puntare molto sull'educazione, anche sull'educazione delle nuove generazioni, perchè purtroppo la violenza si apprende: è un modo di comportarsi, di percepire le relazioni. Noi ci dimentichiamo sempre che molte violenze di uomini contro le donne si manifestano addirittura durante la gravidanza. Invece si tratta della seconda causa di morte in gravidanza, dopo le emorragie uterine. E i figli in casa guardano, osservano, vedono che esiste questo modo di relazionarsi e purtroppo a volte lo acquisiscono. Dobbiamo proprio educare al fatto che i rapporti e i sentimenti sono una cosa, e che il possesso è un'altra. Perché in queste violenze si tratta di possesso. Non c'è nient'altro".
Nell'Unione europea sono 97 milioni le donne con un lavoro, ma in media guadagnano il 17 per cento in meno degli uomini. Il divario salariale legato al genere, e la sua riduzione, sono i principali temi sui quali le istituzioni di Bruxelles hanno concentrato la loro attenzione in occasione della Giornata internazionale della donna del 2012. Non è un problema che riguardi solo le donne al lavoro: in conseguenza del gap salariale, anche le pensionate percepiscono pensioni più basse, e più degli uomini sperimentano perciò la povertà in età avanzata.
Benchè le lavoratrici abbiano qualifiche uguali o migliori dei lavoratori, spesso le loro capacità sono considerate meno e le loro carriere procedono più lentamente. La mancata parità nel reggere la gestione della famiglia, poi, determina per le donne maggiori interruzioni dei periodi di lavoro e un ricorso molto più frequente al part time. Molte donne sono occupate in settori meno retribuiti: oltre il 40 per cento delle europee lavorano negli ambiti della salute, dell'educazione e della pubblica amministrazione, che rappresentano campi meno pagati di altri nei quali la prevalenza è fortemente maschile.
Il divario comincia già all'università, dove è vero che il 55% degli studenti sono studentesse, ma queste ultime rappresentano una minoranza nelle facoltà scientifiche, informatiche e ingegneristiche. Il che le porterà a essere meno presenti nei lavori scientifici e tecnologici, con il risultato che si riverseranno in settori dell'economia meno valorizzati e meno pagati.
I piani strategici dell'Unione europea si propongono di arrivare al 2020 con un tasso di occupazione del 75% sia tra gli uomini che tra le donne, nella fascia d'età compresa tra i 20 e i 64 anni. Percentuale dalla quale l'Italia è lontanissima, visto che il suo tasso di lavoro femminile del 47,1% (già bassissimo rispetto alla media europea) si è di nuovo abbassato in conseguenza della crisi. Ma la Ue è anche decisa ad aumentare gli sforzi, delle proprie istituzioni e degli Stati membri, per ridurre il gap salariale legato al genere.
Quanto ai cittadini d'Europa, in un sondaggio realizzato nel gennaio 2012 da Eurobarometro (un servizio d'indagine della Commissione europea) hanno indicato alcune misure necessarie per ridurre il divario retributivo tra donne e uomini. Nell'ordine: facilitare un accesso uguale a ogni tipo di impiego, per esempio quello di uomini ai lavori sociali e di donne a professioni scientifiche e informatiche; imporre multe alle aziende che non rispettano l'uguaglianza di genere, ad esempio in retribuzioni e promozioni; pretendere tabelle salariali trasparenti nelle imprese.
In occasione della Festa della Donna, l'Associazione Nazionale tra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro ha presentato il 2° Rapporto ANMIL intitolato "Donne, lavoro e disabilità: tra sicurezza e qualità della vita". La ricerca, ideata dal Gruppo Donne ANMIL per le Politiche Femminili, affronta la questione "donne - lavoro - infortuni" dal punto di vista statistico e normativo.
La notizia in parte consolante è che nell'ultimo decennio, a fronte di una costante crescita di donne occupate, gli infortuni sul lavoro femminili hanno registrato una sostanziale stabilità (da circa 244.000 infortuni nel 2001 a 245.000 nel 2010), mentre molto più positivo è stato il trend delle morti sul lavoro, in netta flessione: meno 38 per cento , passando dai 127 casi del 2001 ai 78 casi del 2010, (ultimo anno disponibile nelle statistiche INAIL).
Dal Rapporto emerge inoltre che, rispetto ai livelli di occupazione, l'inserimento dei disabili è ancora molto basso ed in particolare si registra un netto svantaggio per le donne che hanno un tasso di occupazione pari appena all'11 per cento rispetto a quello degli uomini che è pari al 29 per cento.
Per quanto riguarda gli incidenti, quelli femminili avvenuti in occasione di lavoro rappresentano appena il 29,2 per cento del totale, mentre sono la maggioranza per quelli avvenuti "in itinere", vale a dire nel percorso casa-lavoro e viceversa: sui circa 89.000 infortuni in itinere del 2010, 45.000 riguardano le donne e 44.000 gli uomini.
Quindi per la donna che lavora il pericolo più reale e diffuso è
rappresentato proprio dal percorso di andata o ritorno dal lavoro: un
percorso che spesso costituisce il momento della giornata in cui si
concentrano tutte le difficoltà di conciliazione tempo di lavoro-cura
familiare (svegliare i figli, accudirli, portarli a scuola, svolgere
altre incombenze prima di correre per andare al lavoro o per tornare a
casa ecc.), con inevitabili riflessi sul piano della lucidità e
concentrazione e quindi della sicurezza.
Di fronte a questi dati l'ANMIL sollecita una proposta di legge che
favorisca l'inserimento delle donne nel mondo del lavoro e annulli gli
svantaggi come quello legato alla doppia discriminazione rispetto
all'inserimento lavorativo (donna-disabile). L'ANMIL propone anche una
legge di iniziativa popolare per riordinare tutta la materia della
tutela degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. La
raccolta delle 50 mila firme si concluderà in ottobre.
Roberto Zichittella