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Nella notte tra l'8 e il 9 ottobre è stato annunciato un passo diplomatico che fino a poche settimane fa sembrava difficile da immaginare: Israele e Hamas avrebbero firmato la «prima fase» del piano di pace proposto dagli Stati Uniti, un’intesa che prevede — tra gli elementi centrali — il rilascio degli ostaggi e una tregua temporanea nella Striscia di Gaza. L’annuncio è arrivato dal presidente Usa Donald Trump e ha suscitato reazioni immediate e contrastanti in tutto il mondo. Il primo effetto mediatico è stato di sollievo: famiglie e comunità hanno salutato la prospettiva di rivedere i propri cari, mentre nelle strade di Gaza si sono viste scene di gioia cauta. Ma la realtà concreta rimane complessa: l’accordo entra in vigore soltanto dopo il via libera formale del governo israeliano e dopo lo scambio di liste e verifiche tecniche previste dai mediatori.
Cosa prevede (in sintesi) la «prima fase»
Quello che è stato reso pubblico finora è essenzialmente un impegno politico: cessate il fuoco temporaneo; il rilascio degli ostaggi (le cifre variano a seconda delle fonti e sono ancora oggetto di verifiche); il rilascio a loro volta di centinaia — forse migliaia — di detenuti palestinesi da parte di Israele; e un ritiro parziale delle forze israeliane verso linee concordate come primo passo verso una più ampia normalizzazione. Le agenzie riferiscono di cifre approssimative e di diverse tranche: alcune fonti parlano di circa 1.700-1.950 detenuti palestinesi coinvolti nello scambio, mentre è confermato che Hamas ha consegnato ai negoziatori la lista dei prigionieri che intende venga rilasciata. Da parte israeliana il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di «grande giorno per Israele», assicurando che «tutti gli ostaggi saranno riportati a casa» — parole forti che puntano a ricomporre un nodo morale e politico enorme per la società israeliana. Donald Trump ha definito l’intesa «il primo passo verso una pace duratura». Parole che valgono, per ora, come promessa politica: l’attuazione dipenderà da controlli, tempistiche e garanzie sul terreno.
I nodi aperti e i rischi
Non è solo questione di firme. Ci sono almeno tre problemi pratici e politici che possono far saltare il tavolo:
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Verifiche sui corpi e sugli ostaggi viventi. Hamas, durante le trattative, ha fornito prove di vita per alcuni ostaggi ma ha ammesso di non sapere con certezza dove si trovino alcuni corpi. È prevista una task force internazionale — con Israele, Stati Uniti, Egitto e Qatar — per localizzare i dispersi e gestire le ricerche. Questo tema sensibile può allungare i tempi e complicare l’immediata attuazione della fase iniziale.
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L’approvazione del governo israeliano. L’intesa necessita del via libera formale del gabinetto israeliano: alcuni ministri di estrema destra hanno già dichiarato che non voteranno a favore, denunciando la presunta «pericolosità» del rilascio di detenuti considerati responsabili di attacchi. Quel voto è il banco di prova politico che deciderà la sorte pratica dell’accordo.
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Il dopo-tregua. Anche se la prima fase dovesse essere attuata, resta aperta la partita sul futuro di Gaza: smilitarizzazione di Hamas? governance locale? sicurezza a lungo termine? Nessuno di questi punti è risolto nel semplice scambio immediato; senza una cornice politica più ampia il rischio di ricadute resta concreto. The Guardian
Le reazioni internazionali
I leader europei e regionali hanno salutato con favore il possibile cessate il fuoco, invitando alla piena osservanza dei termini e offrendo contributi per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria. La Commissione Ue e vari governi hanno chiesto che l’accordo apra la strada a una soluzione politica a due Stati, ma hanno anche ricordato la necessità della memoria e della giustizia per le vittime. Il quadro è netto: un accordo sulla «prima fase» c’è — e questo è, dopo due anni di guerra, un risultato di enorme peso simbolico e pratico. Ma la pace non si costruisce con un comunicato: servono verifiche, tempi, garanzie, e soprattutto una volontà politica reale di affrontare le cause profonde del conflitto. Per ora, dunque, prevale la speranza prudente. Se tutto andrà come promesso, molte famiglie potranno riabbracciare i loro cari; se invece le verifiche o i veti politici bloccheranno il processo, si tornerà rapidamente alla frustrazione e al rischio di nuove escalation. Il passaggio che stiamo vedendo è importante — ma la storia insegna che le soluzioni durature nascono solo quando la volontà politica si mette al servizio di accordi concreti e verificabili.
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