La notizia della scomparsa di Ornella Vanoni non è un semplice annuncio di cronaca. Per il popolo dei credenti nella musica, la sua non è una morte, ma una trasfigurazione: l'ingresso definitivo di un Archetipo nell'eternità della cultura. Piangere sarebbe un fraintendimento del suo messaggio. Come ci ha insegnato in una delle sue canzoni più rivelatrici – non la più famosa, ma forse la più profonda – la sua essenza era proprio la coesistenza degli opposti: un sorriso dentro al pianto. E oggi, il nostro pianto per la sua dipartita non può fare a meno di contenere il sorriso grato per il patrimonio di umanità che ci ha donato. La sua intera opera è stata un "incorniciare" le emozioni più turbe, le storie più scomode, dando loro la dignità di un'icona. Ha scattato un ritratto eterno all'anima umana, con tutte le sue imperfezioni.

Non ha mai nascosto le sue crepe. Il suo carisma non era fatto di perfezione inarrivabile, ma di una schiettezza rituale. Le sue interviste fuori riga, la sua autoironia tagliente, erano atti di un vero e proprio esorcismo pubblico contro l'ipocrisia. Come le divinità ingannatrici, ha giocato per tutta la vita con le aspettative del pubblico, trasformando l'ansia, la depressione e una vita sentimentale turbolenta in una liturgia emozionale.

È lei, l’«Anima che canta», non una santa canonizzata, ma una che ha trovato nella pratica del canto la sua via di salvezza. «Parole sulle note sono state la migliore compagnia / Per affrontare la stupidità abbiamo ancora l'allegria», recita il testo. L'allegria non è felicità spensierata, ma la forza coraggiosa di chi canta nonostante il dolore, di chi trova un "sorriso" proprio "dentro al pianto". È la stessa resilienza che la Vanoni ha incarnato: la forza di trasformare ogni ferita in una strofa, ogni amore finito in un salmo per cuori infranti.

È in questa dichiarazione – «Io sono tutto l'amore che ho dato, tutto l'amore incondizionato» – che troviamo il nucleo del suo credo, una fede laica eppure profondamente spirituale. Questa non è la promessa di un'anima immortale in attesa di un paradiso ultraterreno. È qualcosa di più radicale e terreno: è l'affermazione che la nostra unica, vera resurrezione sta nella scia d'amore che lasciamo nel mondo.

La “fede” di Ornella Vanoni, così come emerge dalla sua opera, era una fede nella resistenza resiliente dell'umano contro l'oblio. Credeva che l'unico modo per sfidare la morte non fosse attraverso la preghiera a un dio lontano, ma attraverso l'atto coraggioso di donare pezzi della propria anima – le proprie emozioni, le proprie fragilità, il proprio amore incondizionato – all'ascoltatore. Quell'amore, una volta dato, cessava di essere un suo possesso personale per diventare un bene comune, un patrimonio emotivo eterno.

La sua morte fisica, quindi, non è la fine di questa esistenza, ma il momento in cui il suo "Io Sono" – cioè la somma totale di tutto l'amore che ha cantato e incarnato – si stacca definitivamente dalla sua persona per diventare pura eredità, pura energia a disposizione di chiunque abbia un cuore per ascoltare. La sua resurrezione avviene ogni volta che una sua canzone accende un'emozione, consola un dolore o semplicemente fa sentire qualcuno meno solo. È una fede nella vita dopo la morte dell'io, ma non della relazione.

Attraverso la lente della Pop-Theology, vediamo in lei l'ultima sacerdotessa di un culto più necessario che mai per tutti: il culto della verità emotiva. Il suo "sorriso dentro al pianto" non è una semplice metafora, ma un dogma di speranza per un'umanità fragile: un inno alla resilienza dell'umano che, morendo come individuo, rinasce eternamente come eco d'amore. Per il resto, quanto al suo vero destino, ora, dopo la sua morte, i cristiani sono educati a “sperare per tutti” (H. urs von Balthasar). Speriamo dunque anche per Ornella, affinché si possa meravigliare della bellezza paterna del Dio -agape nel paradiso di Luce e di pace di Gesù, giudice “giusto nella sua grande misericordia”.

Foto Ansa