Franco, diretto, era così Giorgio Pecorini, un giornalista schietto e correttissimo, milanese d’origine, volterrano d’adozione che aveva per così dire assimilato il gusto toscano per la battuta lapidaria, ironica e autoironica. La ritrovavi scolpita anche in certe righe delle sue e-mail private che scriveva a 95 anni con grande agilità. Se n’è andato l’8 agosto nella sua casa e il suo nome resterà per sempre legato a quello di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, che aveva contattato per la prima volta nel 1958: un incontro diffidente come tutti quelli di don Milani con i giornalisti,e, a dispetto di questo, innesco di una grande amicizia, vera. Pecorini, in I care ancora, Emi, 2001, l’avrebbe descritta così: «Ero ben consapevole (…) di che cosa quell’incontro avesse significato per me, di come m’avesse aperto la testa facendomi uscire dal guscio di quell’unica cultura laica in cui son nato e di cui m’ero sino allora sentito appagato. E uscirne senza abdicare alla mia laicità. Rafforzandola anzi nel confronto libero con una cultura altra: la cultura religiosa, di cui finalmente scoprivo, oltre l’esistenza, il valore in sé, e il peso nell’interscambio di idee e di esperienze».
Anche per questo fa un po’ sorridere che ancora oggi, nei ricordi a stampa di Giorgio, si legga qualche avversativa di troppo, come se ci si potesse ancora stupire che si possa essere profondamente amici pur avendo un’idea diversa delle cose di Lassù. Giorgio era amico di Lorenzo Milani con la “A” maiuscola, si era conquistato la stima con l’onestà intellettuale, con la correttezza professionale che è chiarissima fin dalle prime lettere, ma anche con la franchezza, con il saper rispondere a tono senza infingimenti né ipocrisie.
Don Milani, che aveva un’avversione totale per gli ipocriti e un naso formidabile nello stanarli, ci mise poco a capire che Pecorini era uomo profondamente leale e infatti gli diede fiducia anche nel momento più duro, un anno prima della morte circa, quando, in polemica con gli intellettuali di tutti i colori, convinto che lo avessero strumentalizzato tirandolo per la talare, descrivendolo in modo distorto, contribuendo ad acuire le incomprensioni con la Chiesa e in particolare con il cardinale Ermenegildo Florit, arcivescovo di Firenze, istituì il cosiddetto “blocco continentale”: la cacciata simbolica di tutti gli intellettuali da Barbiana. Pochissimi rimasero gli ammessi, tra loro c’è stato Pecorini.
Nemmeno la morte di don Lorenzo, avvenuta il 26 giugno 1967, aveva interrotto la loro amicizia. Ancora poco tempo fa in una mail privata Pecorini si definiva: «Irrecuperabile monomaniaco milaniano». Il suo modo di esprimergli fedeltà imperitura è stato coltivarne la memoria con filologico rigore, senza mai provare a proteggere da sé stesso Milani e le sue provocazioni, a costo di qualche screzio con altri affezionati milaniani, affettuosi a costo di essere meno rigorosi.
Perdendo la voce di Pecorini perdiamo un testimone importantissimo, perché, benché sia vero che ogni testimone porta un tassello al mosaico della verità anche se mai nessuno da solo tutta la verità definitiva su una vicenda storica o umana, è innegabile che con Giorgio Pecorini perdiamo uno degli oramai rarissimi che hanno avuto la ventura di incontrare Lorenzo Milani da adulti, in un rapporto alla pari, e non da padre a figlio, da maestro ad allievo come invece è capitato a tutti i cosiddetti “ragazzi” di San Donato a Calenzano e di Barbiana, ormai tutti canuti, ma in quel rapporto destinati a restare per sempre “ragazzi”, nel senso della distanza anagrafica e psicologica con il maestro, padre e pastore perduto prematuramente. Anche le loro testimonianze sono decisive, ma non hanno né possono avere il disincanto che aveva Pecorini, che era amico, stimava e si confrontava a partire dalla struttura di una persona formata che si rapportava a un coetaneo, con tutta la franchezza e la libertà del caso.
Ps. Ciao Giorgio, grazie di tutto, soprattutto per le porte che mi hai aperto (senza dirmelo e senza che te lo chiedessi) nel mondo milaniano.