Sergio Marchionne, ex amministratore delegato di Fca, è morto nell’ospedale universitario di Zurigo, in Svizzera, dove era ricoverato dal 27 giugno scorso per un intervento alla spalla destra. L'ultima sua uscita pubblica era stata due giorni prima, a Roma, alla consegna di una Jeep all'arma dei carabinieri. Era già affaticato, chi lo ha visto quel giorno ricorda che parlava con difficoltà. Ma per lui, figlio di carabiniere, quell'appuntamento era irrinunciabile. È stato il suo ultimo saluto pubblico, per molti aspetti simbolico, la chiusura del cerchio di un'esperienza umana e professionale. Nei suoi anni alla guida di Fiat, a partire dal 2004, e in seguito di FCA, è stato l’artefice del risanamento dell’azienda automobilistica e del suo rilancio internazionale con la fusione con la statunitense Chrysler. Marchionne aveva da poco compiuto 66 anni e si sarebbe dovuto dimettere dal ruolo di amministratore di FCA nei primi mesi del 2019. Ma la malattia hanno fatto precipitare le cose. Sabato scorso i consigli di amministrazione, convocati d’urgenza, hanno nominato i successori.
Negli ultimi giorni Marchionne è stato assistito dai due figli, Alessio Giacomo e Johnatan Tyler, e dalla compagna Manuela. Dopo l'intervento alla spalla destra, a fine giugno, le sue condizioni parevano nella norma. Dieci giorni fa l'aggravamento per quelle che i sanitari hanno definito "complicanze postoperatorie". La situazione sarebbe precipitata all'inizio di questa settimana. L'amministratore delegato di Fca ha perso conoscenza. Venerdì John Elkann ha constatato che «Marchionne non potrà tornare a fare l'amministratore delegato».
Quando disse: Fiat ce la farà
Sergio Marchionne era nato a Chieti, Abruzzo, nel 1952. Il padre, maresciallo dei Carabinieri, si trasferì in Canada dopo la pensione per cominciare una nuova vita. La madre era di origini dalmate (Maria Zuccon). Prende tre lauree (Filosofia, Economia, Giurisprudenza) più un master in Business Administration. Diventa «dottore commercialista» dall’85 e procuratore legale e avvocato (nella regione dell’Ontario) dall’87. Descrisse così nel 2011 i suoi inizi: «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt’altro e ho fatto prima il commercialista, poi l’avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro».
Nel 2002 passa alla guida della ginevrina Sgs, colosso dei sistemi di certificazione che vede fra gli azionisti di controllo la famiglia Agnelli ed è in Svizzera che Marchionne si costruisce una rete di relazioni che contano. Due anni dopo arriva la nomina a Ceo. Marchionne, in giacca e cravatta come non avvenne poi praticamente mai, si presenta alla stampa insieme al nuovo vertice del gruppo Fiat: il presidente Luca Cordero di Montezemolo e il vicepresidente John Elkann, all’epoca ventottenne. Le prime parole che pronunciò quel giorno furono queste: «Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici».
Il Lingotto era sull’orlo del fallimento con un debito convertendo, concesso dalle banche creditrici, che poi si rivelò decisivo. Un prestito che, senza un immediato cambio di rotta per un’azienda che perdeva più di due milioni di euro al giorno, avrebbe consegnato Fiat alle banche. Non accadde. Tra le sue frasi più celebri: «La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo». Oppure: «La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei».