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mercoledì 18 giugno 2025
 
Il ricordo
 

Ciao Bruno, se ne va la voce "stilosa" dell'Italia in azzurro

05/03/2025  È morto a Gorizia Bruno Pizzul, telecronista garbato. Avrebbe compiuto 87 anni tra pochi giorni: raccontava l'Italia del calcio con passione trattenuta per dovere, eleganza e senso etico

Per voce sola o quasi. Per trent’anni anni Bruno Pizzul è stato una voce, amica: per 16 è stato la voce ufficiale dell’Italia che rincorre una palla in maglia azzurra e in calzoncini. Per quella voce passava un’Italia alla conquista del mondo, in qualche modo: la stessa Italia di cui Winston Churchill ebbe a dire che andava alla guerra come alla partita di calcio e alla partita di calcio come alla guerra.

Ironia del destino, la voce garbata di Pizzul, cognome friulanissimo di Cormons anche se era nato Udine, non ha fatto in tempo a raccontare direttamente, in telecronaca, nessuna di quelle conquiste: nel 1982 c’era ma era per così dire «riserva», nel 2006, il primo mondiale dei senza Pizzul, aveva lasciato con la pensione il posto a Marco Civoli.

In Spagna gli toccò il racconto del mondiale delle altre squadre: andava da Elche a Siviglia, da Malaga a Barcellona. L’Italia era il feudo di Nando Martellini, Bruno Pizzul lo avrebbe ereditato all’edizione successiva quella sfortunatella del Messico 1986. E qualcuno ancora si chiede - senza pensare che il suo stile glielo avrebbe impedito -, se in friulano, fosse stato al seguito degli azzurri, sarebbe riuscito a rompere il silenzio stampa creando un feeling in "marilenghe", come i friulani chiamano la loro lingua madre, con Zoff e Bearzot. La sua ultima Italia mondiale è stata nel 2002 in Corea, luogo geometrico delle disfatte in cui l'azzurro virava nella tenebra. In mezzo le Notti magiche, quelle sì legatissime alla sua voce.

Il 2006, invece, come raccontò a Famiglia Cristiana, era stata la prima volta, in cui era riuscito a godersi «il Campionato del mondo nella sua interezza, come fenomeno complessivo, dopo una vita passata a vedere solo le partite di cui dovevo fare la telecronaca. Bisognerebbe ricordarsi in telecronaca che spesso chi guarda ha la sensazione, a volte fondata, di sapere più di chi parla. Spesso chi sta in poltrona ha visto tutte le altre partite, mentre tu vedi più approfonditamente solo un aspetto». 

Non gli mancava tutto quel peregrinare, vissuto senza aver mai preso la patente per pigrizia, in cui aveva messo una passione pacata: «Mi resta», raccontava a margine di un Mondiale più recente in cui stava a riposo da poco, «un po’ di rimpianto per i ritmi serrati che mi impedivano di vedere quanto avrei voluto del pezzo di mondo in cui mi trovavo. Soprattutto negli anni Settanta, prima che intervenisse la globalizzazione, l’estero, soprattutto l’est europeo, era davvero intrigante: vedevi davvero un altro mondo, persone davvero diverse. Gli alberghi non erano abituati come ora a proporre menu internazionali, globalizzati anche loro. A volte dovevi superare la diffidenza istintiva verso abitudini e gusti alimentari terribilmente diversi dai tuoi. Molto ha contato la passione per il calcio: senza passione sarebbe stata una fatica e una noia».

Era, la sua, una passione trattenuta per professionalità, un calore di fiamma lontana, per non perdere la sobrietà necessaria a chi deve raccontare, si permetteva con l'Italia giusto un filo di elegante trasporto, non si riconosceva tanto, neanche da spettatore nelle telecronache agitate dei tempi recenti, dove la concitazione delle voci sembra talora sentirsi in dovere di sopperire a quello che in campo non succede: «Oggi», raccontava, «si cerca la telecronaca su misura per lo spettatore tifoso, si parteggia in modo a volte esasperato, soprattutto nelle Tv a pagamento, dove l’utente può addirittura scegliere un’opzione di parte. Alla Rai dei miei tempi era ammesso un po’ di trasporto emotivo evidente solo per la nazionale, ma mai una telecronaca evidentemente partigiana. Anzi l’imparzialità a quei tempi era considerata un valore, un segno di professionalità e anche chi aveva simpatia per una squadra o una chiara passione per certi colori, faceva del suo meglio per non lasciarla in alcun modo trasparire».  Solo molto dopo confidò accanto a una sentita e praticata fede crisitiana, un vecchio cuore granata.

Laureato in Giurisprudenza, titolare di una lingua ricca e raffinata, Pizzul aveva dato alla telecronaca uno stile anche linguistico, che lo rendeva riconoscibile non solo dal timbro ma senza mai cedere all’affettazione. Sapeva che era importante farsi capire, aiutare chi guardava a interpretare l’azione senza mai sovrastarla.

Da nonno di una decina di nipoti (poi diventati 11) non si rammaricava che non fossero granché interessati al calcio. Consigliava loro di darsi ad altri sport: non li portava allo stadio, che considerava un ambiente «poco rassicurante».

Proprio allo stadio aveva vissuto la più difficile delle telecronache, che lo aveva segnato, nel 1985, la notte dell’Heysel. Ne viveva con disagio anche la rievocazione: «Per me», scrisse su Fc vent’anni dopo, «la sola parola evoca sensazioni angosciose, un disagio che riguarda la sfera della coscienza, l'aspetto umano. Sono passati vent'anni da quella terribile notte in cui, per una partita di pallone, ci furono 39 morti e un'infinita scia di dolore. Confesso un costante senso di imbarazzo quando vengo sollecitato a ricordare ciò che accadde, anche perché, in piena buona fede, mi si chiede una testimonianza di carattere professionale. E invece dentro di me è restato solo lo sgomento per l'assurda tragedia, l'inaccettabile sensazione che ci fossero morti e feriti, lutti e lacrime in un contesto che, nonostante la sovreccitazione che spesso caratterizza il tifo sportivo, avrebbe dovuto essere di festa, di condivisione di un momento ludico».

Anche a chi raccontava toccò stravolgere i ferri del mestiere, improvvisarne quasi uno diverso, materia di cronisti al fronte: «Ricordo, per esempio, quanto mi costò decidere di non far parlare al microfono i pochi che, raggiunta la postazione, mi chiedevano di poter far sapere ai parenti che erano vivi, che se l'erano cavata: è stato molto duro vietare quel naturalissimo desiderio di tranquillizzare mamme, mogli o amici; ma decisi, non so se a ragione o a torto, che se avessi attivato quella specie di improvvisato e comunque parziale ponte radio-televisivo, avrei involontariamente contribuito a gettare nella costernazione e nell'angoscia le migliaia di mamme, mogli o amici cui non poteva pervenire alcun messaggio personale rassicurante».

Dell’eredità non colta di quella notte si rammaricava: «Molto si è parlato, spesso in termini di cruda ricostruzione giornalistica. Sono state individuate responsabilità, formulate accuse di ogni genere. Ma, ripeto, credo che sarebbe opportuno soprattutto utilizzare quei dolorosissimi ricordi per comprendere come sia indispensabile accompagnare la propria passione sportiva con il corredo della tolleranza, della buona educazione, della consapevolezza che gli stadi sono luoghi a rischio», un auspicio che ammetteva caduto nel vuoto.

Di calcio parlava ancora volentieri, magari rievocando in pubblico nelle notti d’estate dei Mondiali degli altri. Ma sapeva di appartenere a un altro mondo, a un altro tempo, a un altro stile. Che non aveva bisogno di rivendicare, né di esibire, perché era il suo stile di uomo prima che di telecronista.

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