Nel Paese dei balocchi e dei no (no Expo, no gasdotto, non Tav, no cooperazione allo sviluppo, no Europa, no euro, no legge elettorale, no Cristoforetti; persino no all'immigrazione, come se potessimo dire sì o no a fenomeni planetari) era più che prevedibile che le malaccorte parole del ministro Alfano ("Dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti. Invece di farli stare lì a non far nulla, che li facciano lavorare") suscitassero una levata di scudi.
Malaccorte perché "far lavorare gratis i migranti" evoca brutti scenari. E pare un'idea quasi punitiva, come dire: vi manteniamo, almeno datevi da fare. Come se chi rischia la vita per migrare o è costretto a chiedere asilo in un Paese straniero avesse qualcosa da farsi perdonare.
Ma quando a levare gli scudi sono tipi come la Santanché, e soprattutto lo fanno in sincrono con i pasdaran del fronte politico opposto, bisogna sempre insospettirsi. E infatti.
Intanto, Alfano ha fatto riferimento a una circolare, la numero 14290 del 27 novembre 2014, che parla molto chiaro. Indirizzata ai prefetti, invita a individuare "attività di volontariato" rivolte "esclusivamente ai richiedenti asilo". E per queste attività stabilisce condizioni tali (pubblichiamo a parte la circolare) che il dubbio, semmai, è che ci sia troppo "garantismo", il rischio della solita deriva italiana, quella per cui, volendo fare le cose perfette, si finisce col non farle affatto. Altro che schiavismo o sfruttamento come si è fin troppo letto in queste ore.
Non è un caso, infatti, se anche monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, ha giudicato in modo positivo la circolare del ministero degli Interni. E ha parlato di "pulizia delle strade, nevicate", attività di scarsa piacevolezza ma di grande utilità.
Niente schiavismo, quindi. E nemmeno, come dicono i cattivisti di maniera, un modo nuovo per togliere lavoro agli italiani, o per scatenare una guerra tra poveri per esercitare umili occupazioni. Per una ragione banale, molto evidente ma che alcuni stentano ad afferrare: il volontariato non è un lavoro, non è una fonte di reddito. Difficilmente il disoccupato italiano cercherà, che so, di andare a tagliare l'erba ai giardinetti al posto di un richiedente asilo somalo, invece di spendere il suo tempo nella ricerca di un'occupazione.
Cresce così il sospetto che la levata di scudi contro Alfano sia la solita, rituale protesta contro chiunque provi, di fronte a un problema, ad avanzare una proposta. Magari imperfetta o addirittura sbagliata, ma tesa a incidere sul problema. Le proposte che piacciono agli italiani sono quelle dei tipi alla Santanché (bombardiamo qui, bombardiamo là, anche se poi tutti, dal segretario generale dell'Onu in giù ti spiegano che stai dicendo una sciocchezza) o del loro contrario: quelli che, nell'attesa del mondo perfetto, non fanno proprio nulla. Accontentandosi, nel frattempo, di insultare chi ci prova. Se chiedessimo ai migranti stessi, scopriremmo forse che sono più d'accordo con Alfano che con i suoi critici.
|
A volte occorre vedere le cose da un'altra prospettiva. Allora, immaginiamo che domani l'Italia diventi un teatro di guerra e che migliaia di italiani cerchino di sfuggirvi, per la paura di morire, per la fame, o perché scuole e ospedali non funzionano più. Immaginiamo che sia io, giornalista, uno di quegli italiani, o un nostro ingegnere, muratore, insegnante o medico.
Arrivo in un Paese che mi accoglie e che deve valutare i motivi per cui chiedo protezione. Poi, però, le leggi di questo stesso Paese mi vietano di cercare un lavoro, fino a quando non deciderà del mio status di rifugiato, e nel frattempo, mi "accoglie" – se mi va bene – in un centro sovraffollato, talvolta indecente, dove vengo controllato dalla polizia e devo rientrare la sera, come fossi in libertà vigilata. Non solo, questo Stato "accogliente" "sospende" la mia vita sotto ogni altro aspetto, compresa l'eventuale ricongiunzione familiare con mia moglie e i miei figli.
Le istituzioni di tale Paese mi dicono che, sì, la situazione è complicata, ma per sei mesi, il tempo di valutare la domanda. Invece scopro che mentono: i tempi non vengono rispettati. E se la mia domanda viene rigettata, altroché sei mesi… i tempi del mio ricorso potranno durare due, forse tre anni.
Mi verrebbe da dire: caro "Paese accogliente", deciditi. Mi vuoi considerare un criminale pericoloso o uno sventurato scappato da guerra e fame?" Ma so già che il "Paese accogliente" da molti anni non si decide: per un po' ha trattato i profughi come criminali, poi li ha respinti con le navi militari, ora li accoglie ma non sa che farne.
Tuttavia, di fronte ai mille problemi che creano le migliaia di persone come me, il "Paese accogliente" qualcosa decide: che posso fare qualcosa, ma dev'essere attività di volontariato, di utilità sociale, devo sottopormi ad attività di formazione, e devo aderire a un'associazione.
Splendido, dico io, così mentre la mia famiglia o i miei parenti sono alla fame o sotto le bombe, io per sei mesi, o forse un paio d'anni, faccio volontariato. E perché, invece, non farmi fare il giornalista? Non ho bisogno di formarmi e mi guadagno il pane. E magari comincio a realizzare il sogno di una vita diversa, motivo per cui ho lasciato, mio malgrado, il mio Paese.
Bene. Torniamo alla realtà: un ministro, che dovrebbe conoscere le leggi, se ne esce dicendo che è ora che i rifugiati la smettano di stare con le mani in mano, e che facciano – gratis – qualcosa di socialmente utile. Se fossi uno di loro, a questo punto mi incavolerei di brutto. Oppure, avendo senso dell'umorismo, penserei di essere capitato in un film comico. Anche perché, oltre alla boutade del ministro, avrei assistito al teatrino di chi gli dà dello schiavista (ed è lo stesso che vorrebbe ricacciarmi nel mio Paese), chi gli dice che viola le norme sul lavoro (ma quale lavoro? Non lo posso esercitare), chi gli dice che è indegno far lavorare gratis gli immigrati (ma dovrebbe almeno sapere che con le norme attuali è anche peggio).
Io reagirei così, ma perché sono italiano, il mio Paese è fra i sette più sviluppati del mondo e non è in guerra da 70 anni. Loro, i profughi veri, non se lo possono permettere. Forse alzano solo le spalle, e pensano che domani dovranno fare qualche altra pratica burocratica, nella speranza di ottenere il sospirato riconoscimento di rifugiato.
|