La stanza dov'è nato Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Foto di Ugo Zamborlini.
Con la grafia di un bimbo di prima elementare, dopo
essersi cimentato con le aste, comincia a scrivere le
sue prime parole: «Io amo». Il sogno di Paolo VI,
quello di costruire una «civiltà dell’amore», come
dirà nel celebre discorso all’Onu, il 4 ottobre 1965,
parte dai banchi di scuola. «Dal quel foglietto conservato
nella documentazione per la beatificazione.
E forse ancora prima», racconta don Antonio
Lanzoni, vicepostulatore della causa e delegato vescovile per
la promozione della memoria di Paolo VI.
«Probabilmente
non è un caso», dice il sacerdote, «che i suoi genitori, due giovani
della provincia di Brescia, Verolanuova lei e Concesio lui,
si conobbero e si innamorarono durante un pellegrinaggio
delle rispettive parrocchie a Roma sulla tomba di Pietro».
Mamma Giuditta e papà Giorgio ebbero un ruolo decisivo
«per la formazione di quel bambino nato in una famiglia attenta
al sociale e impegnata in politica, di cui si sa che già la
nonna Francesca aveva curato i soldati feriti nella battaglia
di San Martino e Solferino».
Il bambino Battista, come lo chiamavano in famiglia, gioca
nella casa estiva di Concesio, e poi, tra il Santuario di Santa
Maria delle Grazie, dove andava a Messa, l’oratorio dei Padri
filippini della pace, e la casa in cui cresce, nel quartiere
del Carmine, comincia a maturare la sua scelta vocazionale,
«sempre improntata all’attenzione agli altri». E così più tardi,
quando da giovane sacerdote partecipa alla fondazione della casa editrice Morcelliana e della
sua rivista Humanitas, «c’è già in preparazione
nel suo animo quella Chiesa
esperta in umanità di cui da Papa si farà
promotore. Una Chiesa che ha passione
per l’uomo, tanto che, alla fine
del Vaticano II, Montini arriverà a dire
che il Concilio non è stato altro che rifare
la parabola del buon samaritano che
si piega sull’umanità. Il dialogo, il confronto,
il rapporto con la cultura sono
tutti frutto di questo umanesimo devoto,
di questo umanesimo cristiano che
ha chiare radici bresciane».
Monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia.
E Brescia le ricorda aprendo, in occasione
della beatificazione del suo cittadino
illustre, un anno montiniano che
si concluderà l’8 dicembre 2015 in coincidenza
con i 50 anni dalla chiusura del
concilio Vaticano II. «Concilio che», sottolinea
il vescovo della città, monsignor
Luciano Monari, «Paolo VI ha immaginato
e condotto come una profonda
riflessione della Chiesa su sé stessa,
nell’intento di permettere una riconciliazione
sincera con il mondo contemporaneo.
La frattura tra fede e vita era
per lui la vera sfida da affrontare e superare,
perché il messaggio evangelico
potesse essere capito».
«Certo», continua il vescovo, «dire
che egli ha raggiunto il suo obiettivo
non sarebbe corretto. Il “mondo” non
si è lasciato raggiungere così facilmente
e spesso ha risposto all’attenzione e
all’amore della Chiesa con l’indifferenza
se non con l’aggressività. Ma proprio
per questo il messaggio e la testimonianza
di papa Montini divengono
ancora più significativi. In qualche modo Paolo VI ha trasmesso a noi il testimone,
chiedendoci di continuare lealmente
il suo impegno».
Don Angelo Maffeis, presidente dellì'Istituto Paolo VI. Foto di Ugo Zamborlini.
Per raccogliere questo testimone
Brescia e la Chiesa intera dovrebbero riscoprire
«il singolare messaggio della
sua prima enciclica, Ecclesiam suam, dove
sono immortalati spirito e metodo
del dialogo, soprattutto nel difficile
rapporto Chiesa-mondo», aggiunge il
professor Mario Taccolini, direttore del
dipartimento di Scienze storiche e filologiche
della Cattolica di Brescia. «È memorabile
l’immagine della “Chiesa
esperta in umanità”. Proprio a questo
umanesimo cristiano dovrebbe ispirarsi
ancor oggi il laicato, bresciano e non
solo, sulla scorta anche della sempre attualissima
Evangelii nuntiandi», documento
«fondamentale e insuperato»
come lo ha definito papa Francesco.
Il tema educativo, del come, appunto,
annunciare il Vangelo «è un carisma
della brescianità», dice ancora il
professor Taccolini. «Non a caso il padre
Giorgio si batte per la libertà di educazione,
fonda con altri laici e sacerdoti
diocesani l’editrice La Scuola, indirizza
il giovane Giovanni Battista verso le
attività dell’oratorio dei Padri filippini
della pace, dove troverà guide spirituali
e culturali».
Qui maturano anche le
sue amicizie tra le quali il legame profondo
con Andrea Trebeschi, martire
della Resistenza, con il quale condivise
emozioni e dubbi, esperienze di fede e
riflessioni politiche, testimonianze del
passato e propositi per il futuro».
L’uccisione di Andrea, nei campi di
concentramento, segna profondamente
papa Montini che si commuove ancora,
il 12 dicembre del 1977, al ricordo
del suo amico ricevendo in udienza il figlio
Cesare Trebeschi con tutto il consiglio
comunale di Brescia. «La Curia
chiedeva di avere la lista dei nomi perché
voleva che ci fossero solo democristiani,
ma io mi opposi», ricorda Trebeschi.
«E quando dissi al Papa: “Questo è
Francesco Loda, capogruppo comunista”,
il Papa sorrise e rispose: “In questa
casa sono tutti benvenuti”. Credo
che questa espressione dica tutto su
chi era papa Montini».