Beatrice Fazi sorride spesso, con sincero trasporto, mentre dipana i ricordi del passato: lascia che pensieri e parole si rincorrano tra loro, gioiosi e risoluti, nonostante quel dolore che continua ad accompagnarli. A distanza di anni, infatti, la sua sofferenza è ancora lì: meno sguaiata del passato, meno violenta e non più accusatoria, ma ancora presente. Come una stilettata al cuore, o un brusio di sottofondo che non si può spegnere. Eppure è proprio questa danza esistenziale di dolore e pace a rendere la testimonianza di Beatrice Fazi particolarmente autentica. Nelle sue parole sembra infatti riassunto il messaggio della Giornata per la vita 2018: “Il Vangelo della vita, gioia per il mondo.. Solo una comunità dal respiro evangelico può trasformare la realtà e guarire dal dramma dell’aborto e dell’eutanasia”.
Tra l’altro l’attrice, nota al grande pubblico per la fiction Un medico in famiglia, è la madrina dei Cav (Centri di aiuto alla vita) di Roma e, sulla sua esperienza di aborto e fede, ha scritto persino un libro: Un cuore nuovo, edito da Piemme.
Ma partiamo dall’inizio. Tutto è incominciato quando un’ancora ventenne Beatrice si ritrova, senza volerlo, incinta: il suo compagno non ne vuole sapere e così lei decide di abortire. Lo fa da sola, in una clinica romana, spinta dalla paura di quell’enorme cambiamento indesiderato. L’operazione avviene quasi con semplicità, in modo spiccio, senza troppe domande da parte dello staff medico. Quello che ne conseguirà, invece, sarà tutt’altro che breve e indolore. «All’epoca ero una donna a favore dei diritti femminili, dell’aborto e naturalmente contro la Chiesa. All’inizio, dunque, non percepivo come un errore la scelta di abortire: il passo falso, semmai, era stato rimanere incinta. Con questo inciampo clamoroso, rischiavo infatti di rovinarmi la carriera di attrice», spiega la Fazi. «Mi sono aggrappata alla convinzione che si trattasse solo di un grumo di cellule: nulla che si potesse chiamare vita. Sulle prime, avevo addirittura creduto di aver eliminato il problema, abortendo».
A smentire questa sua certezza ci ha pensato però la realtà: dopo l’aborto, inizia a trascinarsi dietro una sofferenza sorda. Non riesce (e non vuole) darle un nome, preferendo attribuire questo suo malessere ad altre cause. «Sono nata in provincia, a Salerno, dove rimanere incinta e ancor più abortire sono considerati atti di cui vergognarsi», continua Beatrice. «Ero bloccata da questo retaggio. Inoltre, ogni volta che sentivo parlare Giovanni Paolo II o Madre Teresa di Calcutta dell’aborto, mi sentivo accusata: pensavo che la Chiesa fosse il volto giudice di Dio che ti dice quale era la tua colpa e cosa dovevi fare per essere assolta».
Invece, proprio quella Chiesa che doveva condannarla ha finito per darle la pace. A ridosso del 2000, la Fazi incontra infatti l’uomo che diventerà poi suo marito, Pierpaolo Platania, dopo alcuni anni rimane incinta e da lì a qualche mese, complice una confessione con don Fabio Rosini, trova la fede. Inizia così un percorso spirituale, prima seguendo i Dieci comandamenti e poi all’interno della realtà neocatecumenale. «Il mio è stato un percorso di maturazione e consapevolezza graduale: il Signore mi ha mostrato, con delicatezza, i miei errori. Senza stravolgermi. Senza chiedermi di diventare altro da me», ricorda. «La cosa bella di essere credente e di accettare i propri fallimenti è che non devi più nasconderti dietro a una facciata: non devi dimostrare niente a nessuno perché tu sei amata, così come sei».
Frequentando la comunità cristiana Beatrice realizza l’errore dell’aborto senza però viverlo come una condanna: «La Chiesa, che nel mio immaginario doveva condannarmi, mi ha accolta nel perdono, dicendomi che potevo ricominciare. Le conseguenze del mio atto rimangono: quel figlio non nascerà mai più ed è giusto che io provi contrizione. Mi sono però anche sentita dire: “Hai sbagliato, ma tu non sei quello sbaglio. L’errore non è l’ultima parola sulla tua vita”. Per me è stato fondamentale».
Con il dolore, Beatrice dovrà comunque convivere per sempre. Però adesso non è più la paura a dettare le scelte della sua vita: «I nostri peccati, o errori (peccare in fondo significa sbagliare il bersaglio), sono dettati dalla paura: dal timore di perdere qualcosa che consideriamo vitale, di rimanere soli, di non avere certezze… La paura può muovere tutte le nostre scelte, per tutta la nostra vita», aggiunge. «Ecco, credo che la vera emancipazione sia iniziare a vivere la paura come un sentimento che ci rende vigili, ma non schiavi. E questo è possibile quando capisci di avere un Padre che provvede a te».