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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Sgarbi: «Viviamo in un paradiso senza saperlo»

18/12/2013  Il critico torna in libreria con "Il Tesoro d'Italia", un viaggio nei luoghi più nascosti alla ricerca del patrimonio storico e artistico del nostro Paese. «I politici non sanno nulla, pensi che Berlusconi non ha mai visto Piero della Francesca. Bisogna creare un ministero del Tesoro dei beni culturali».

Si fa presto a dire che la bellezza salverà il mondo. Ma come la mettiamo se questa bellezza è una perfetta sconosciuta a chi ogni giorno ci passeggia sopra e non incontra mai uno sguardo che la illumini e la riconosca come tale?
Smessi i panni del polemista che infiamma i salotti tv, Vittorio Sgarbi ha deciso di indossare quelli di novello Virgilio per condurre gli italiani, tutti noi, alla scoperta del tesoro d’Italia, che dà il titolo al suo ultimo libro edito da Bompiani (Il Tesoro d’Italia – La lunga avventura nell’arte, pp. 480, 22 euro,) primo volume di una trilogia che vuole esplorare un’Italia protetta e remota che va da Anagni a San Severino Marche, da Rocca Cilento a Vatolla a Giungano fino agli affreschi di Sant’Angelo in Formis.

Vuole fare il professore di storia dell’arte?
«Diciamo che ho tracciato una storia e geografia dell’arte secondo lo schema che il critico Carlo Dionisotti pensò per la letteratura. È il primo di tre volumi per le scuole pensato però per lettori fuori corso e fuori scuola dove ci sono sia le perle nascoste che artisti indispensabili come Wiligelmo, Duccio di Boninsegna, Giotto, Benedetto Antelami, per citarne solo alcuni».

Ma a scuola non si studiano?

«I libri scolastici di storia dell’arte sono quasi sempre difficili per il dettato, molto tecnici, pieni di date. E poi a scuola sei obbligato a studiare tutte queste cose perché devi essere interrogato. Qui non c’è nessuno che t’interroga, sei un adulto che vuole capire cos’è capitato e decidi liberamente di andare in giro per l’Italia, da Assisi a Firenze a Palermo, avendo qualcuno che ti accompagna. È un libro bello da vedere perché paradossalmente l’arte è così bella che genera libri bruttissimi come i manuali scolastici, pieni di asterischi, grafici e numeri, su carta trasparente: tutto un sacrificio dell’immagine. Questo è un libro dei fondamentali che ti permette di avere una panoramica completa della storia dell’arte. E il bello è che quando vai a vedere questi luoghi prendi atto della grande fortuna che hai avuto di non averli studiati a scuola, altrimenti rischiavano di diventarti antipatici come succede con Alfieri, Parini o il Manzoni».

Sta dicendo che è meglio abolire la storia dell’arte dai programmi scolastici?
«In Italia tantissimi praticano la musica e sono melomani anche se la musica non è materia obbligatoria a scuola. Probabilmente è un grande privilegio non avere l’obbligo ma la libertà di conoscere l’arte, per trarne godimento sia materiale che spirituale. L’obiettivo che mi pongo è far conoscere, scoprire o riscoprire quel patrimonio che costituisce il grande tesoro d’Italia».

Ma noi italiani siamo consapevoli di questo tesoro?
«No. Gli artisti e le opere che descrivo in questo libro anche se poco conosciuti sono comunque grandi. Non è un problema solo della scuola. Perché tutti dovrebbero sapere chi è Petrarca e non Simone Martini, il secondo pittore italiano senza il quale non si comprende la storia moderna della pittura? Non conoscerlo è come se uno non vivesse in Italia ma alle Maldive o in Australia. Questa inconsapevolezza del tesoro d’Italia  è un dato inquietante non solo rispetto alla sua tutela ma anche alla sua valorizzazione».

Che compete ai politici. Ignoranti pure loro?

«Berlusconi, per esempio, non è mai stato ad Arezzo a vedere gli affreschi di Piero della Francesca, Gianni Agnelli lo stesso. Forse ci è andato Renzi ma solo perché è toscano».

Tutti quindi dovrebbero leggere il suo libro.
«Il mio obiettivo è introdurre una coscienza che ha un significato profondamente politico nella prospettiva di una "rivoluzione costituzionale": creare un ministero del Tesoro dei Beni culturali che sia la fusione tra quello dell’Economia e quello dei Beni Culturali e tenga conto del valore assoluto di quello che abbiamo. Vorrei capire perché se uno ha in casa venti quadri di Van Gogh o di Picasso diciamo che ha un tesoro e noi che siamo immersi in questo tesoro molto più grande non ne siamo consapevoli e neppure lo consideriamo tale. Noi viviamo in un paradiso terrestre dove l’arte dell’uomo ha aumentato e accresciuto la bellezza della natura creata da Dio. Goethe quando vide villa La Rotonda di Andrea Palladio a Vicenza restò impressionato da come l’architettura si fonde con il paesaggio».

Gli artisti hanno proseguito l’opera della Creazione, quindi?
«Dio ha fatto la natura e l’uomo l’ha abbellita e perfezionata con un lavoro sublime. Il risultato è quel paradiso terrestre a cielo aperto che è l’Italia. Rispetto all’Europa, noi non dobbiamo immaginare di avere delle quote di bellezza perché ne abbiamo molta di più, la possediamo tutta intera. A Bruxelles possono fare le quote del latte, delle arance, di barbabietole, non della bellezza. La sola città di Modena ha più opere d’arte dell’intera Germania.  I musei americani sono pieni di opere italiane, il quadro più importante del Louvre è la Gioconda, il 70 per cento di quello che c’è nei musei di tutto il mondo è stato realizzato in Italia».

Insomma, non ce n’è per nessuno.
«Firenze non è quella piccola e povera città di cui parlava Sergio Marchionne ma una città più importante di New York. Il bello è che questo a New York lo sanno, noi no. Il tesoro di Hitler non sono i dipinti che hanno trovato a Monaco e che lui considerava arte degenere ma tutto quello che lui faceva portar via dall’Italia: Masaccio, Mantegna, Michelangelo».

All’estero quindi c’è molta più consapevolezza?
«Certo, è così da sempre. Il gran tour nasce da persone che vengono a vedere il nostro Paese: Winckelmann scopre lo spirito greco venendo qui, Goethe scopre la bellezza d’Italia andando in Sicilia, poi arriva Stendhal. Il turismo italiano, in pratica, nasce dalla rappresentazione dell’Italia che hanno quelli che vengono da fuori. Basti pensare che a Finale Emilia, per fare un esempio, non hanno messo in sicurezza  le torri del Trecento, colpite poi dal terremoto, ma hanno speso un sacco di soldi per fare le rotatorie intorno alla città. Se qualcuno pensa che le rotatorie siano più importanti dei monumenti non ha una percezione sufficiente del patrimonio».

Se da soli non riusciamo più a tutelare il nostro tesoro artistico perché non lanciamo un Sos all’Europa, agli organismi internazionali perché ci pensino loro?
«Bisogna pensare ad una sorta di compartecipazione in quote. Pensiamo all’imprenditore svedese che ha creato un albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio, vicino L’Aquila, recuperandone il borgo o agli americani che stanno lavorando ad Ercolano. L’idea che l’Italia faccia condividere all’Europa una parte della gestione del suo patrimonio sollevandolo da incuria, criminalità, degrado e abbandono è una buona idea».

Ci sarebbero anche i privati. Possiamo paragonarli ai mecenati del Rinascimento?
«Con una differenza sostanziale: che all’epoca non erano imbrigliati dalla burocrazia come lo sono oggi. Pensiamo a Della Valle e alle difficoltà che ha avuto per dare 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo. Non trovo affatto scandaloso che un imprenditore finanzi il restauro di un’opera e poi metta fuori il proprio nome. Sono follie che accadono solo in Italia, al Metropolitan di New York non è così. Il mecenatismo dei privati in Italia è equivocato, viene visto con diffidenza, è inteso come un modo per fare affari, come se questo fosse qualcosa di negativo! Che problema c’è se sull’impalcatura viene messo il nome di Della Valle? Non è mica un danno! Prendiamo i musei, dovrebbero essere tutti gratis».

Sì, ma come si fa?

«Per compensare i mancati introiti dei biglietti si dà la possibilità ad uno sponsor di mettere il suo nome sul Museo. I soldi da qualche parte devono pur venire! Bisogna mettere in collegamento la bellezza con l’economia ma questo in Italia non è possibile. Il problema è che la politica non fa nessuna proposta, da anni ormai si è arenata su piccole questioni, l’Imu, la legge elettorale. Si potrebbe pensare ad una costituente economica per i beni culturali, non sono cose lunari. Chi fa il ministro dei Beni culturali dovrebbe fare anche il vicepremier e soprattutto dovrebbe avere un budget dignitoso da spendere».

Torniamo al libro. Tra i tanti luoghi che segnali ce n’è qualcuno che consiglia di non perdere?
«Sicuramente Modena, Parma, Ferrara, Cremona: tutte le città padane dove nel Medioevo fioriscono tesori straordinari di architettura e scultura. Anche le Marche sono fondamentali perché nell’integrazione tra paesaggi e monumenti, tra natura e centri storici ti fanno vedere un’Italia che altrove in parte è violentata dalla modernizzazione. Qui lavorano Giotto, Guido Reni, Guercino, Crivelli, Lorenzo Lotto. Ogni paese delle Marche, da San Severino a Camerino a Tolentino, è una sorpresa. Poi c’è la Calabria, la Sicilia. Il percorso non deve essere per forza per capitali».

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