Charles de Foucauld (1858-1916)-.
di François Vayne
Il 15 maggio papa Francesco canonizza un ufficiale francese libertino, diventato eremita nel Sahara e “fratello universale”: Charles Eugène de Foucauld de Pontbriand. «Non appena ho creduto che ci fosse un Dio, ho capito che non potevo fare altrimenti che vivere per lui», scrive dopo essersi confessato all’abate Henri Huvelin, il 30 ottobre 1886, nella chiesa di Sant’Agostino a Parigi. Da allora volle imitare il Cristo occupando l’ultimo posto al fianco dei più poveri. «L’imitazione è inseparabile dall’amore.Chiunque ami vuole imitare,questo è il segreto della mia vita», spiega.
Nato a Strasburgo il 15 settembre 1858, orfano all’età di 6 anni, viene affidato con la sorellina ai nonni materni, il colonnello Beaudet de Morlet e sua moglie,che li educano con molto affetto. In famiglia, Charles si lega in modo particolare con forte amicizia a sua cugina Marie de Bondy, di otto anni più grande di lui, che svolge accanto a lui un ruolo materno e lo guida pazientemente mediante una copiosa e bellissima corrispondenza. Il ragazzo è agnostico, si dedica a letture leggere e conduce una vita dissoluta durante gli studi alla scuola militare di cavalleria. Varie prostitute sfilano nella sua camera da letto e Charles dilapida la fortuna lasciata in eredità da suo nonno: «Ero più un porco che un uomo», confida a proposito di questo periodo della sua vita.
Partito per combattere nell’Armata coloniale francese in Algeria, è sconvolto dalla scoperta dell’islam, come egli stesso spiega: «La conoscenza di questa fede, di queste anime vive nella continua presenza di Dio, mi ha fatto intravvedere qualche cosa di più grande e di più vero delle faccende mondane».Affascinato dalla pietà musulmana, si congeda dall’esercito e parte all’esplorazione del Marocco. Il suo lavoro di diversi mesi è celebrato dalla Société de géographie di Parigi, che gli attribuisce una medaglia d’oro nel 1885, mentre continua la sua ricerca spirituale,senza guardarsi indietro.
Viaggiando interiormente, accompagnato dal prete di Parigi con cui si è confessato, l’abate Huvelin, decide di entrare in convento, dapprima in Francia, presso l’abbazia trappista di Notre-Dame des Neiges, poi in Siria. Desideroso di sperimentare una povertà assoluta,è dispensato dai suoi voti nel 1897 e si imbarca per la Terra Santa. Fa il giardiniere presso le clarisse a Nazaret, scrive in tre anni tremila pagine di meditazioni, concentrate sulla vocazione cristiana a «urlare dai tetti il Vangelo» non attraverso la parola ma con l’esempio della vita. Ordinato prete nel 1900, segue i consigli del suo maestro spirituale che non smette di incoraggiarlo per lettera dicendogli di «andare dove lo spirito ti conduce». Il deserto d’Algeria lo attira, la regione berbera del Sahel, dove condividerà le stesse condizioni di vita degli abitanti di Hoggar, traducendo il Vangelo in lingua tuareg.
«Il mio apostolato deve essere quello della bontà», dice l’ex ufficiale artefice del dialogo islamo-cristiano che porta sopra il suo abito religioso il simbolo di un cuore e la croce di Gesù. Intreccia con tutti relazioni di amicizia, come a Tamanrasset con Moussa Ag Amastan, capo di una tribù locale. Non pensa più a convertire, ma ad amare. «Sono sicuro che il buon Dio accoglierà in cielo coloro che furono buoni e onesti pur senza essere stati cattolici romani», dice a proposito dei musulmani che lo circondano, senza mire di proselitismo. «Dio si serve dei venti contrari per condurci in porto», afferma sottolineando la necessità di farsi dare scacco matto da avversità e contrattempi.
«Voglio abituare tutti gli abitanti a considerarmi come un loro fratello», scrive a sua cugina Marie de Bondy, praticando la volontà di Dio, a imitazione di Gesù Cristo. Questa spiritualità si approfondisce nel suo eremo di Assekrem, quando è salvato dalla carestia dai Tuareg che gli portano del latte di pecora, nel 1908. Lui si dona come un povero a Dio, nell’abbandono completo di sé stesso: «Tutto mi dice di convertirmi, tutto mi canta la necessità di santificarmi». Ucciso all’età di 58 anni da banditi saccheggiatori venuti dalla Libia, il 1° dicembre 1916, la sua morte riecheggia la parabola evangelica del chicco di grano che cade a terra, avendo l’offerta della sua vita arrecato frutti copiosi. Come lo fu ai suoi tempi san Francesco d’Assisi, Charles de Foucauld è oggi per tutta la Chiesa un modello di ritorno al Vangelo, riforma che prende le mosse dalla testimonianza di ogni battezzato.