Francesco Maisto, garante dei detenuti delle carceri milanesi.
Ha il piglio del magistrato, Francesco Maisto, ma anche l’attenzione alle persone propria di chi, per una vita, ha cercato di capire le motivazioni di quanti hanno commesso un reato. Specializzato in Criminologia clinica, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, dallo scorso giugno Maisto è garante dei diritti delle persone limitate della libertà personale di Milano: un incarico che ricoprirà per tre anni. Nel capoluogo lombardo, sono circa 3 mila i detenuti, in tre istituti penitenziari per adulti (uno nel centro città, San Vittore, e due nell'hinterland a Bollate e a Opera), oltre all'istituto penale per minorenni Beccaria. Persone che, ai tempi del Coronavirus, rischiano di rimanere isolati più dall’allarmismo che dalle sbarre. E di aumentare la loro “fragilità” psicologica. Ma Maisto avverte: «Anche sulle misure prese in carcere per il Coronavirus ci sono troppe fake news: gli istituti penitenziari non stanno ponendo ai detenuti maggiori limitazioni rispetto a quelle che già hanno, anzi. In molti casi, vengono organizzate videochiamate con i famigliari, per sopperire alle limitazioni dei colloqui». E assicura: «Le persone detenute sono preoccupate? Sì, ma per noi esterni, non per loro! Perciò, in questi giorni, la raccomandazione è: scrivete, scrivete, scrivete e rassicurateli sulla vostra salute».
- Come si sta cercando di evitare un’epidemia dietro le sbarre?
«Ci sono vari livelli di intervento, armonizzati tra di loro. Prima di tutto, a livello nazionale, le disposizioni che ha dato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e che riguardano la sospensione delle traduzioni tra i vari Istituti penitenziari, ovvero gli spostamenti con scorta dei detenuti, e le necessità di raccordarsi con i presidi sanitari territoriali. Ci sono poi le raccomandazioni dei provveditori regionali: da quello della Lombardia, ad esempio, le linee di indirizzo sono state date già lunedì mattina. Infine, il terzo livello di intervento riguarda il singolo istituto: può sembrare strano, ma molte precauzioni e avvertenze dipendono dalla tipologia architettonica della struttura, dagli accessi, dalle condizioni delle camere di pernottamento…».
- Non c’è il rischio che, con le misure adottate, i reclusi si sentano ancora… più reclusi?
«Certo, sembra che i detenuti possano avvertire, con queste misure, un maggiore isolamento rispetto a quello ordinario, ma a ben vedere si tratta di una sorta di cordone sanitario necessario per tutelarli. La fragilità psicologica è il vero isolamento. E, su questo, la Lombardia sta lavorando bene: purtroppo, però, anche in questo campo girano false notizie…».
«Ad esempio, è vero che l’accesso agli istituti, per gli esterni, è limitato, ma c’è da distinguere tra le persone che lavorano in carcere e quelle che svolgono attività di volontariato. Per tutti, all’ingresso, sono previsti presidi di triage, ovvero di controllo sanitario. Chi è in servizio deve attenersi alle norme di ogni cittadino: se si hanno sintomi, occorre accertare la situazione. Per i volontari, invece, l’ingresso dipende dal tipo e dalla frequenza dell’attività: alcuni sono ammessi, dotati di mascherina.È inesatto dire che tutti i volontari non possono entrare! Anche sui colloqui c’è molta cattiva informazione: non sono stati sospesi, la disposizione è quella di vietare gli assembramenti e ciò dipende molto dalla struttura delle carceri, pensiamo alla differenza tra San Vittore e Bollate, ad esempio. Può comunque entrare un solo adulto, dotato di mascherina. Altra notizia falsa, è che sono stati sospesi i permessi...».
- Quindi, i detenuti escono in permesso?
«Dipende da quali permessi. Quelli premio sono sospesi, è vero, ma non quelli di necessità, che cioè vengono concessi in situazioni di urgenza, come per un parente in fin di vita; il lavoro all’esterno e la semilibertà dei detenuti sono sospesi, ma si possono svolgere quelle attività lavorative che avvengono all’interno del muro di cinta dell’istituto. Al momento, quindi, la situazione appare tranquilla, anche perché i detenuti si sono dimostrati responsabili e collaborativi».
- Quale è la proposta alternativa, per evitare di far perdere il contatto con la famiglia?
«Le carceri di Milano stanno facendo tanto in questo senso: sono state autorizzate maggiori telefonate ai famigliari e i colloqui attraverso videochiamate. C’è comprensibilmente un po’ di paura, ma ci sono riunioni costanti tra educatori, direttori e detenuti. E poi c’è la volontà da parte dei direttori stessi di venire incontro alle esigenze delle persone: a Bollate, per esempio, i detenuti che sono autorizzati ad avere un cellulare quando escono in permesso, possono utilizzarlo per contattare la famiglia anche all’interno del muro di cinta dell’istituto».
- Qual è, dunque, il consiglio per chi ha un famigliare in carcere?
«Ai parenti che sono fuori occorre raccomandare di scrivere lettere e di tranquillizzare le persone ristrette sulla condizione di salute esterna, perché i detenuti sono preoccupati per coniugi e figli. Solo così è possibile non farli sentire soli».
- Le misure messe in campo sono, secondo lei, adeguate?
«Il carcere risente di quello che avviene nella società, non vive in modo autonomo. Tutto ciò che si poteva fare è stato fatto. Le disposizioni sono temporanee e in continuo aggiornamento. Prima di tutto, però, si cerca di tutelare la popolazione detenuta. A San Vittore, ad esempio, a chi è arrestato in flagrante vengono fatti i tamponi, ma San Vittore è una casa circondariale, cioè un carcere di primo accesso. Una misura del genere sarebbe inutile a Bollate…».
- Nel caso la situazione sfugga di mano, le carceri sono attrezzate a evitare il contagio?
«Le carceri milanesi sono attrezzate così come lo è la città di Milano; i servizi sanitari negli istituti sono allo stesso livello di quelli esterni, con in più il vantaggio che c’è già una sorta di isolamento logistico. Per cui, per ora, non ci sono criticità».