La Cop27, che si è svolta a Sharm el-Sheikh in Egitto, dal 6 al 18 novembre, ha fatto un passo importante verso la giustizia climatica, come ha riconosciuto il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ma ha mancato ancora una volta l’occasione di indicare chiaramente la strada per fermare il riscaldamento globale. Alla fine, quest'ennesima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite si prospetta come un'ulteriore fase interlocutoria: tanti desiderata, ma le poche azioni concrete finora perpetrate non fanno ben sperare per il futuro. Alla prova dei fatti, solo 24 dei 193 Paesi che un anno fa, alla Cop26 di Glasgow, in Scozia, si erano impegnati a trasmettere documenti nazionali contenenti un impegno maggiore contro il cambiamento climatico, hanno mantenuto quanto promesso.
Rispetto alle conclusioni della CoP27, il documento finale non contiene passi avanti sulla via delle energie rinnovabili e dell’abbandono delle fonti fossili, ma si limita ad espressioni generiche per non scontentare nessuna delle molte posizioni in campo, più che fornire linee guida condivise.
L’unico risultato di rilievo è quello della creazione di un fondo relativo al cosiddetto “loss and damage”, ovvero il risarcimento per le perdite e i danni causati dagli eventi estremi legati al cambiamento climatico. «È una questione posta sul tavolo già alla Cop19, che si tenne nel 2013 a Varsavia (Polonia), ed è una questione spinosa sulla quale Nord e Sud del mondo hanno idee contrastanti. L'esempio ricorrente a Sharm è il Pakistan, messo in ginocchio dalle alluvioni della scorsa estate: 32 miliardi di danni stimati, ma anche la cronica siccità del Corno d'Africa», spiega Domenico Gaudioso, membro del Direttivo di Greenaccord, onlus che si occupa di formare i giornalisti sui temi ambientali. «Con il "Climate Finance Pledge", annunciato nel 2009 alla Cop15 di Copenaghen, i Paesi industrializzati (inclusi Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone) si erano impegnati a erogare finanziamenti crescenti per azioni di mitigazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo – continua Gaudioso -. L'obiettivo di un finanziamento di cento miliardi di dollari all’anno doveva essere raggiunto nel 2020. Siamo nel 2022 e non ci siamo ancora - sono stati finora stanziati circa 85 miliardi -, perché c'è chi finanzia meno di quanto aveva promesso di fare. L'Italia in questi giorni ha assicurato di aver triplicato i fondi a disposizione prevedendo, nella Legge di bilancio 2022, un Fondo italiano per il clima con dotazione di 840 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2022 al 2026. Poi ci sono “idee alternative”.
La Germania, per esempio, ha proposto un meccanismo assicurativo, il “Global Shield against Climate Risks”, per aiutare famiglie ed imprese danneggiate, a cui dovrebbero contribuire sia i Paesi donatori che i riceventi. Naturalmente, i Paesi in via di sviluppo non ci stanno, poiché ha detto il ministro ghanese Ken Ofori-Atta, “pagano da tempo in termini di vite perdute, infrastrutture distrutte, mancata crescita economica. A tirar fuori i soldi devono essere i Paesi ricchi che, sfruttando i combustibili fossili, negli ultimi 200 anni hanno sostanzialmente causato l'attuale emergenza climatica”».
L'altro grande tema è quello del contenimento del riscaldamento globale. «Nel 2010 - riprende Gaudioso - le previsioni parlavano di un surriscaldamento globale di 3 gradi centigradi entro la fine del secolo, oggi si viaggia verso 2,4-2,6 gradi centigradi con tre miliardi di esseri umani in zone "altamente vulnerabili". E con una frequenza più alta di uragani, siccità, incendi, ondate di calore, inondazioni.
Tuttavia, se l'obiettivo è il contenimento della temperatura media entro la soglia critica di 1,5°C, è evidente che c'è ancora parecchia strada da fare, soprattutto da parte dei Paesi industrializzati, ma anche dei Paesi emergenti, e pure dei Paesi in via di sviluppo. Cina e India sono sempre molto circospette quando si parla di messa al bando delle fonti fossili, in particolare il carbone, perché si trovano in una situazione di economia in crescita. Tuttavia, soprattutto la Cina, quando fissa un obiettivo, in un modo o nell'altro, lo persegue.
Ridurre l’uso del carbone e incrementare quello delle rinnovabili per i cinesi significa anche combattere contro l'inquinamento, contro la pessima qualità dell'aria. Quindi, c'è da aspettarsi che lo faranno non tanto per motivi ambientali, ma per motivi sanitari. Ma purtroppo ogni tentativo di segnalare l’urgenza dell’abbandono dei combustibili fossili si è scontrato con l’opposizione dei Paesi produttori, in primis l'Arabia Saudita, ma anche la Russia. Ma il rapporto dell’UNEP “Closing the Gap”, il cui logo è una finestra semi chiusa, ci dice che il tempo sta per scadere. Ancora due anni senza fare passi significativi e l'obiettivo di tenere il riscaldamento al di sotto di 1,5 °C sarà perso. E c'è già chi dice che sarebbe meglio focalizzarsi su una meta più realistica, come quella dei 2°C».
Altrettanto significativo il fatto che solo 24 dei 200 firmatari al summit 2021 abbiano mantenuto la parola di rivedere e aggiornare i National Determined Contributions, stabiliti dall'Accordo di Parigi, ovvero i piani nazionali che evidenziano le azioni necessarie a raggiungere i traguardi fissati per tenere sotto controllo il cambiamento climatico. «Le regole sono state quasi completamente condivise a Glasgow, ora si tratta di attuarle, e di alzare l'asticella dei prossimi impegni, con un calendario ben preciso. Entro la fine di quest'anno, gli impegni per il 2030; entro il 2025, quelli per il 2035; entro il 2030, gli impegni per il 2040».
In tutto questo l'Italia come si pone? «L'Italia partecipa alle riunioni ma, all'interno del negoziato, si esprime come Unione Europea. La UE ha ribadito l'impegno a raggiungere una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 come premessa alla neutralità climatica, cioè emissioni zero entro il 2050. L'Italia naturalmente partecipa all'attuazione delle politiche comunitarie ma, per quanto riguarda l'aggiornamento dei documenti nazionali di riferimento, è un disastro totale. Abbiamo ancora il piano nazionale “Energia e clima” del 2019, che faceva riferimento agli obiettivi precedenti della Ue, che parlavano di riduzione delle emissioni di gas-serra del 30%. Ma la svolta radicale verso le fonti rinnovabili è l'unica arma che abbiamo», conclude Gaudioso.