Il contesto traumatico che stiamo abitando, risulta anche problematico per quanto riguarda la Chiesa e la sua presenza nel mondo. Proprio per questo interpello e cerco di parafrasare un testo paradigmatico del beato Antonio Rosmini Serbati, Delle cinque piaghe della santa chiesa, pubblicato nella forma ultima voluta dall’Autore a cura di Nunzio Galantino per i tipi della San Paolo nel 1997, a duecento anni dalla nascita del pensatore roveretano. L’attualità di queste pagine mi sembra fin troppo evidente.
La prima delle piaghe che l’Autore denuncia è quella della separazione del clero dal popolo nel pubblico culto. La situazione pandemica acutizza questa separazione: il pubblico culto, nel senso della liturgia comunitaria parrocchiale ed ecclesiale, è sospeso. E, in questa sospensione, si rischia l’isolamento. Tuttavia, si tratta anche di una opportunità rischiosa: preti con la gente, in altro modo, che non è solo quello cultuale. Se “la gloria di Dio è l’uomo vivente”, allora si dà gloria al Signore partecipando e prendendo su di sé le sofferenze del popolo di Dio. Mentre saliamo all’altare in condizioni di normalità, ora scendiamo dall’altare e comunque incontriamo lo stesso Dio, che celebriamo e invochiamo, mentre lo serviamo nel prossimo.
La seconda piaga è l’insufficiente educazione del clero. Noi preti siamo prevalentemente educati alla sacramentalizzazione, per cui se manca la celebrazione ci sentiamo smarriti e defraudati di una nostra prerogativa fondamentale. Ma forse molti di noi non sanno evangelizzare. Dimentichiamo che è la Parola, nella sua originaria sacramentalità, a raggiungere quei fedeli che partecipano al cosiddetto Zoomworship, al culto in streaming o in televisione. Qui è in gioco il servizio della Parola, che non sostituisce, ma richiama quello dei gesti. Del resto, sappiamo, senza essere per questo protestanti, che è la fede a salvarci non il culto.
Se e come andare in chiesa al credente deve dirlo il vescovo non il potere politico
La terza piaga, quella del costato, decisiva e mortale, è la divisione dei vescovi fra loro. Il popolo di Dio viene disorientato da performance televisive e mediatiche di vescovi che esprimono pareri contrastanti in merito a questioni fondamentali, come se appartenessero a partiti diversi: quello governativo che getta acqua sul fuoco e quello dell’opposizione, che contesta, a prescindere, le decisioni del governo. Peraltro, quando arrivano documenti a nome dei “vescovi italiani” non si sa chi ne sia l’autore e il soggetto. Nessun funzionario può sostituirsi al magistero episcopale, allora, come diceva papa Francesco, si chiede prudenza in momenti così drammatici, che non possono in nessun modo delegarsi agli impiegati di turno.
La quarta piaga, che Rosmini esprime nei termini della nomina dei vescovi abbandonata al potere al potere laicale, chiama in causa la responsabilità e la libertà della Chiesa rispetto al culto. Le decisioni a riguardo non possono essere semplicemente delegate al potere di un premier o di un ministro: non sono loro a doverci dire se e come dobbiamo celebrare. Il governo, cui compete la salute pubblica, emana norme che riguardano le aggregazioni sociali, se esse siano compatibili con le celebrazioni sacramentali e cultuali e in che senso tocca dirlo ai vescovi, che, non essendo pericolosi fondamentalisti incoscienti (almeno si spera), metteranno al primo posto la custodia dell’umano e della salute. Ma se e come andare in chiesa al credente battezzato deve dirlo il vescovo non il potere politico. Potrà anche ritenere di dover chiudere i luoghi di culto, ma sarà l’autorità ecclesiale a stabilirlo, tenendo conto della valenza sociale e civile delle proprie decisioni.
L'apertura delle celebrazioni a determinate condizioni ha dei costi
L’ultima, quinta, piaga riguarda la servitù dei beni ecclesiastici, ossia il tema dei beni materiali. Non siamo pauperisti, ma neppure possiamo ignorare che anche l’apertura delle celebrazioni a certe condizioni (sanificazione ecc.) ha dei costi. E, mi dicono, ci sono parrocchie che attualmente non sanno come pagare le bollette. Mentre si prendono, ripeto in ambito ecclesiale, decisioni riguardo al culto, si tenga conto anche del prezzo che il culto stesso comporta.
Finora i preti italiani continuano ad usufruire dello stipendio erogato grazie alla destinazione dell’8 per mille, ma ci chiediamo, dato il crollo del gettito fiscale, come e in che misura questo sistema potrà andare avanti? I preti non navigano nell’oro, la loro sobrietà, insieme alla loro dedizione alla gente, è sotto gli occhi di tutti. Allora, poiché povertà non significa sciatteria, adoperiamoci perché dignitosamente possiamo portare avanti la nostra missione, che è innanzitutto quella dell’evangelizzazione.