di Włodzimierz Rędzioch
A partire dal Medioevo, per tanti secoli la Svizzera, allora Paese povero e agricolo, fornì soldati ai sovrani europei. I mercenari combattevano, ma prestavano servizio anche come guardie del corpo all’interno di corti raffinate. Apprezzandone valore militare, disciplina e fedeltà, i Papi scelsero le Guardie svizzere per il Vaticano. Nel 1479 Sisto IV concluse un accordo con la Confederazione elvetica che prevedeva la possibilità di reclutare suoi cittadini. Il 22 gennaio 1506 un gruppo di 150 soldati, dopo una marcia di 800 chilometri lungo la Via Francigena, attraversò la Porta del Popolo entrando per la prima volta nella Città Eterna per servire papa Giulio II. Già nel 1527 il Corpo si distinse durante il sacco di Roma: il 6 maggio di quell’anno 147 Guardie svizzere morirono, ma grazie al loro sacrificio papa Clemente VII poté salvarsi riparando dentro Castel Sant’Angelo. In ricordo di quell’epico episodio di battaglia del 1527, ogni 6 maggio le reclute della Guardia giurano la loro fedeltà al Papa. Ovviamente è cambiata radicalmente la motivazione che spinge i giovani ad arruolarsi. La Svizzera è oggi un Paese ricco e chi lo lascia lo fa perché, credente, vuole dedicare qualche anno al servizio del Pontefice e della Chiesa. In Vaticano le Guardie sono seguite da un cappellano. Nascono anche vocazioni al sacerdozio. Come quella di Didier Grandjean, 32 anni.
Come è stata la sua infanzia?
«Sono originario del Cantone di Friburgo, cresciuto in una zona di campagna dove l’impronta cattolica era ancora molto marcata. Ho cominciato a fare il chierichetto verso gli 8-9 anni. Avevo anche la gioia di cantare nel coro parrocchiale e di leggere la Parola di Dio. Questi impegni mi hanno permesso di vivere più da vicino il mistero di un Dio che si fa storia».
Quando sentì parlare delle Guardie svizzere?
«Nel 2006. Il Corpo festeggiava 500 anni di vita. Visitando una fiera dei mestieri (abbastanza numerose in Svizzera), mi imbattei in uno stand delle Guardie e tornai con un volantino. Quando mio padre mi vide arrivare a casa mi disse: “Pensaci”».
Quando si arruolò?
«In quegli anni la mia preoccupazione era piuttosto quella di trovare un lavoro e poi prestare il servizio di leva obbligatorio. Nel 2009 ebbi il privilegio di assistere al solenne giuramento, prestato il 6 maggio nel Cortile di San Damaso, all’interno del Palazzo apostolico. Non avevo più dubbi: era quello che volevo fare. Ricordo che nella mia mente si mischiava il desiderio di servire la Chiesa nella persona del Santo Padre e la prospettiva di vivere un’esperienza unica. Arrivai in Vaticano il 10 giugno 2011».
Fu un grande cambiamento.
«Vero. L’inizio non fu facile. Era tutto nuovo, non conoscevo la lingua e la mia timidezza non mi aiutava. Ciononostante, più passava il tempo, più avevo coscienza di essere al posto giusto. La scoperta di una città come Roma, per me che venivo dalla campagna svizzera, fu una rivelazione dal punto di vista culturale e religioso».
Quale momento del servizio le è rimasto per sempre nella memoria?
«L’11 febbraio 2013. Fui, come tutti, colto di sorpresa dall’annuncio della rinuncia di Benedetto XVI. Quel giorno ero di turno all’ingresso dell’Arco delle Campane, l’annuncio ci fu dato tramite la radio di servizio. Ero incredulo, ma la mia incredulità sparì quando, cinque minuti dopo, si presentò davanti a me il primo giornalista!
Ebbi la grazia di vivere da vicino gli ultimi momenti del pontificato di Benedetto XVI: l’ultima Messa, l’ultima udienza, la partenza dal Vaticano. I giorni del conclave e dell’elezione di papa Francesco furono carichi di emozioni. Finché vivrò, non potrò dimenticare quei primi mesi del 2013».
Di solito i giovani svizzeri scelgono il breve servizio nella Guardia, uno, due anni. Lei ha scelto di rimanere di più.
«È vero. Per di più nel 2015 fui promosso e diventai sottufficiale. Questo mi permise di servire il Santo Padre più da vicino e di accompagnarlo nei viaggi in Italia e all’estero. Contemporaneamente fui incaricato della comunicazione della Guardia in quanto assistente del responsabile. Un’esperienza molto arricchente».
Come è nata la sua vocazione al sacerdozio?
«Conoscere due Papi da vicino e vivere nel cuore della Chiesa non poteva certo lasciarmi indifferente. Più passavano gli anni, più mi rendevo conto che tramite le persone che incontravo e le circostanze che vivevo il Signore mi stava parlando, mi stava chiamando a seguirlo più da vicino. Dal Giubileo del 2016 in poi, furono anni molto intensi, con tante ore di servizio, tanti viaggi, tanti incontri, tante riflessioni. Maturai la decisione di entrare in seminario a poco a poco, finché non divenne evidente. Sentii allora una grande pace, come se fosse l’esito logico di un percorso intrapreso da tempo. Vidi la faccia del Papa illuminarsi quando glielo dissi. Egli fu ed è tuttora un vero e proprio padre spirituale per me. La mia gioia più grande fu poterlo annunciare a mio papà malato di cancro, poco tempo prima che morisse. Lì per lì non disse niente. Poi, pochi giorni prima di spirare: “Lo sapevo. Se è questa la tua strada, vai. Sono felice”. Successe poi con mia nonna. La chiamai al telefono qualche giorno prima di lasciare Roma e il mio servizio. “Sono fiera di te”, mi disse per due volte. Se ne andò dieci giorni dopo, meno di un mese prima
del mio ingresso in seminario».
Quando è entrato in seminario?
«Il primo settembre 2019».
Dove?
«Da più di due anni faccio parte della comunità del seminario di Friburgo. Ogni giorno ringrazio il buon Dio che con tanta pazienza mi ha guidato in tutti questi anni. So di poter contare sulla preghiera e l’aiuto di tanti fratelli e sorelle, qui sulla terra e lassù nel cielo. La comunione dei santi non è un’espressione vuota, la si può sperimentare con gratitudine! Guardo al futuro con speranza e serenità. Le difficoltà ci sono e ci saranno, ma come dice un proverbio nel mio dialetto: “Il buon Dio non manda il capretto senza il cespuglio per nutrirlo”».