Londra, Olimpiadi del 1948… è lì che tutto ebbe inizio, quando Ottavio Missoni, campione italiano dei 400 metri a ostacoli, incontra Rosita Jelmini, appartenente a una famiglia di imprenditori del tessile, in Inghilterra per imparare l’inglese. Lo vide gareggiare e se ne innamorò, ma aveva solo 16 anni. Si sposarono nel 1953 e col matrimonio diedero vita anche all’impresa che più familiare di così non si può. Il brand è Missoni ma gli artefici sono stati sin dall’inizio Rosita e Ottavio. «I miei genitori avevano due personalità ben definite e due ruoli complementari ma uno stesso progetto. Quando mio padre diceva “Io sono il creatore, ma Rosita ha creato me” sottolineava che fu lei a scoprire in lui un talento nascosto per il colore», racconta il figlio Luca, direttore artistico dell’Archivio Missoni. «Prima di conoscerla, aveva già un’attività a Trieste, un piccolo laboratorio di maglieria che aveva messo su con amici nel Dopoguerra. Realizzavano tute da ginnastica utilizzate anche dalla Nazionale d’atletica. Ma erano capi semplici, in tinta unita. Solo grazie a mia madre iniziò a sperimentare le cromie e a far emergere quella che poi sarebbe diventata l’inconfondibile estetica Missoni».
In pratica sua madre ha portato il colore nel talento di suo padre?
«Sì, aveva una visione della moda entusiasta e innovativa e un forte legame con il mondo dell’arte e del design. Credeva nella maglieria come strumento di libertà per le donne, sia in senso fisico che sociale. Sapeva riconoscere certi modi di usare il colore e i tessuti. Inoltre, capiva che cosa potesse essere d’attualità in un momento specifico. Aveva un ruolo guida, era il giudice finale: ricordo che quando, insieme a mio papà, le presentavamo dei tessuti che avevamo creato o delle sperimentazioni, solo se la convincevano si andava avanti, altrimenti si ricominciava. Mio padre si fidava totalmente del suo istinto e la seguiva in questo viaggio creativo. Insieme, poi, furono avanguardisti e pionieri del prêt-à-porter italiano».
E ora voi figli portate avanti l’azienda.
«Negli ultimi anni mia madre si era dedicata esclusivamente a Missoni Home, mentre la moda era passata a mia sorella Angela (presidente di Missoni Spa). Mio padre, invece, ha continuato a creare i suoi patchwork e gli arazzi senza più preoccuparsi delle dinamiche commerciali. Sono ormai vent’anni che la gestiamo e portiamo avanti la tradizione familiare, cercando di mantenere vivo il loro spirito innovativo».
Luca Missoni, 68 anni, nell'Archivio Missoni ad Albusciago di cui è il Direttore creativo.
Il telaio che ruolo ha avuto e ha per la Maison?
«È da un telaio che tutto è cominciato. Mio padre diceva sempre: “Con le macchine possiamo fare solo righe”, scherzando sul fatto che il nostro stile è caratterizzato proprio da queste trame. Ma saper creare righe e colorarle in modo armonico è un’arte complessa. Abbiamo sviluppato progetti educativi per trasmettere questa arte ai giovani, come INTRECCI, realizzato con il MA*GA (Museo Arte Gallarate). L’idea è far capire agli studenti quanto sia importante la composizione cromatica e come la tradizione tessile possa essere un punto di partenza per nuove forme di creatività».
La terza generazione della famiglia è coinvolta nell’azienda?
«In tutto i miei hanno avuto nove nipoti e ora ci sono anche i pronipoti. Tra i cugini c’è un legame affettivo, anche grazie a mia mamma che negli anni ha sempre tenuto le fila al di là dell’azienda dove non c’è sempre posto per tutti e non c’è mai stato un obbligo a venirne coinvolti: ognuno è libero di seguire le proprie inclinazioni e interessi. Però il legame tra di noi è molto forte, proprio grazie all’educazione ricevuta. La famiglia è sempre stata il centro di tutto, e questo si riflette anche nel modo in cui gestiamo l’attività».
C’è un luogo dove vi riunivate?
«La casa di mia madre è sempre stata il cuore della famiglia. Lei organizzava le cene, i compleanni, e in tutto questo la cucina aveva un ruolo centrale. Era molto attenta alla qualità degli ingredienti e alla stagionalità, valori che aveva ereditato da sua madre. Ancora oggi ci ritroviamo lì intorno allo stesso tavolo per gli incontri familiari, e la cucina è ancora attiva, anche se mia madre non c’è più».
Che rapporto avete con il territorio?
«Siamo legati a Gallarate e al Varesotto dove l’azienda è nata. Negli anni ’70, con l’espansione dell’attività, i miei genitori decisero di trasferirsi in collina. Prima costruirono la fabbrica, poi la casa dove siamo cresciuti. Ancora oggi la chiamiamo “la casa della nonna”, perché è sempre stata il punto di riferimento per tutta la famiglia».
Quali talenti avete ereditato da Ottavio e Rosita?
«La sportività di mio padre è rimasta in alcuni nipoti, ma forse non tutti hanno ereditato il suo spirito competitivo. Da lui abbiamo preso soprattutto la creatività e la libertà di espressione artistica, la voglia di sperimentare senza dover rispondere per forza a logiche di mercato. Da mia madre, invece, abbiamo appreso il senso dell’ospitalità e il valore delle relazioni sociali».
Le righe e lo zig-zag Missoni sono iconici?
«Questi motivi sono diventati un vero e proprio simbolo. Negli anni ’60, quando mio padre iniziò a usarli, risultavano rivoluzionari e portavano una grande carica di gioia. Indossarli era un segno di personalità. Sono così distintivi che, ancora oggi, se vediamo in giro un motivo simile, sappiamo che o è nostro o è una copia».