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lunedì 07 ottobre 2024
 
Una vita per gli altri
 
Credere

Fabio Massimo Abenavoli: il chirurgo che regala sorrisi

04/01/2018  Come presidente di una Ong gira i Paesi più poveri per operare i bambini con malformazioni e ferite al viso. «Restituire ai genitori un bambino risanato mi fa sentire partecipe del disegno della Divina Provvidenza»

Bisognerebbe vivere dosando le proprie energie. Ma c’è chi non lo fa. E sceglie di vivere senza risparmiarsi mai, perché sente l’urgenza di donarsi completamente senza risparmiarsi. Fabio Massimo Abenavoli vive così, ininterrottamente in viaggio nei Paesi più poveri dell’Africa e in quelli del Medio Oriente, in cui la guerra e i conflitti sembrano non cessare mai.

Disposto a correre il rischio di contrarre gravi malattie (ed è accaduto alcuni fa in Afghanistan) e a operare in teatri di guerra senza paura, a chi gli chiede come fa, lui risponde che non si tratta di non aver paura, ma di affidarsi a Dio. «È il Signore che ogni giorno mi fornisce energie nuove e nuove ispirazioni: mi lascio guidare da lui e mi sento ogni giorno uno strumento nelle sue mani».

E così il presidente di Emergenza sorrisi, Ong che da dieci anni organizza missioni chirurgiche in 18 Paesi nel mondo per curare bambini con malformazioni del volto, traumi di guerra e gravi ustioni, attraversa il globo terrestre, “consumando” spesso un passaporto all’anno per via dei numerosi visti, che i suoi viaggi internazionali richiedono. «Nulla può rendermi più felice di restituire un bambino “risanato” a genitori addolorati che lo hanno affidato alle mie mani: questo mi fa sentire partecipe del disegno della Divina Provvidenza».

Come è cambiata la sua fede nel tempo?

«Ho frequentato a Roma una scuola di tradizione cattolica in viale Parioli. Mia madre mi ha insegnato a credere in me stesso e a fidarmi di Dio».

Quindi è da sempre che lei crede e prega?

«Sì. Ma alcuni avvenimenti che hanno segnato la mia vita familiare hanno, diciamo, trasformato il mio rapporto con Dio, mettendolo alla prova. Nel 2014 mio figlio Goffredo Maria è stato colpito da un “fulmine” improvviso, l’incubo di ogni genitore: un tumore incurabile. Io e mia moglie abbiamo lottato e pregato senza sosta, chiedendo un miracolo e chiedendo preghiere a tutti. Siamo stati con lui a Lourdes e a Medjugorie.

E poi?

«Abbiamo vissuto mesi di cure dolorose. Poi il giorno del suo sesto compleanno lo abbiamo accompagnato sulla porta del Cielo ed è lì che ha spento le sue candeline, mentre noi pregavamo per lui in una chiesa silenziosa. Nessuno può capire ciò che descrivo, se non chi l’ha passato. Ci sono stati giorni di disperazione, dovuti al dolore insopportabile del distacco. Mia moglie mi ha aiutato a rialzare gli occhi al cielo. So e sento che mio figlio è sempre con me, anche se non posso abbracciarlo. Ora ancor più di prima desidero salvare i bambini che mi vengono affidati nei Paesi in cui mi reco con Emergenza sorrisi. Il sorriso dei loro genitori ora conta per me quasi ancor più di quello che restituisco ai loro bambini».

Che significa pregare per lei ?

«Sentirsi costantemente alla presenza di Dio. Ringraziarlo per ogni progetto della mia Ong che viene approvato. Ringraziarlo alla fine di ogni intervento chirurgico che faccio. Pregare è sapere che ogni giorno che ho a disposizione è un dono da non sprecare. Ed è questo che io e mia moglie cerchiamo di insegnare ad Angelica, la nostra bimba, che ha attraversato con noi il dolore della separazione dal suo fratellino. Ogni minuto che abbiamo è un prezioso dono di Dio, che ci ama e ci vuole sempre con gli occhi rivolti a lui».

 C’è una frase che secondo lei può condensare il senso della vita?

«Mi viene in mente una frase che spesso ripete padre Ciro Bova, il vicedecano della Facoltà di Teologia dell’Angelicum, un domenicano, cui io e mia moglie siamo molto legati. Padre Ciro ha un fortissimo carisma, che penetra il cuore con la sua predicazione e ripete spesso che “mentre l’ignoranza se ne va in giro sparlando, l’intelligenza sta in silenzio e prega”».

C’è un santo o un personaggio della spiritualità contemporanea che la ispira in modo particolare?

«Amo molto la forza e la tenace concretezza di Madre Teresa di Calcutta quando dice che “la cosa che rende più felici è essere utili agli altri” e quando insegna che “il peggior difetto è il malumore” e che “la protezione più grande è l’ottimismo” e “la maggior soddisfazione, il dovere compiuto”».

Ogni giorno lei viene a contatto con il dolore e al termine di ogni operazione lei restituisce a un bimbo il sorriso. Lo restituisce a lui e ai suoi genitori. Ci può raccontare una delle esperienze che più le ha toccato il cuore?

«Il dolore è sempre lo stesso in ogni parte del mondo: Africa, Medio Oriente, Asia... Proprio come l’amore. Ogni genitore è disposto a fare qualsiasi cosa per salvare suo figlio o proteggerlo dalla sofferenza. Ho visto un padre in Mozambico portare suo figlio in ospedale dopo giorni di cammino senza mangiare. Lo ha affidato a noi. Anche lui aveva il “labbro leporino” e doveva essere operato. Ma il giorno dell’operazione del figlio è scomparso: per fargli avere una possibilità di cominciare una nuova vita lontano da quel villaggio in cui la loro malformazione è considerata un segno di sfortuna che ti segna per sempre. Mia moglie ha scritto un bellissimo racconto sulla storia di Eusebio e Zaccaria, suo padre, intitolandolo Il bambino che si baciava nello specchio».

Come viene preparata una missione? Quali sono le cose immancabili perché possa riuscire al meglio?

«C’è un protocollo rigido che noi seguiamo per ogni missione: accordi con le ambasciate, accordi con gli ospedali che ci ospiteranno, contatti assidui con i medici locali che sono i nostri referenti nei vari Paesi e, talvolta, anche cargo di materiali chirurgici che poi lasciamo ai medici locali cui abbiamo fatto training. Ma come dico sempre: la missione è la parte più facile. Il difficile è arrivare al punto di poterla organizzare, perché – ancora una volta –

si sono aperti i cuori delle persone che, con le loro donazioni, rendono possibile ogni nuova partenza».

 
 
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