Il 23 luglio 2025 il Senato ha approvato all'unanimità un disegno di Legge in tema di reato di "femminicidio", il testo non è ancora legge lo sarà soltanto dopo che sarà approvato in testo identico anche alla Camera.
Molti titoli hanno sintetizzato: «Il femmininicidio diventa reato punito con l'ergastolo», si tratta di una semplificazione che rende solo in parte l'idea, perché non è che fino adesso non fosse reato uccidere una donna, e il farlo in quanto donna, nell'ambito di un contesto discriminatorio e/o all'interno di una relazione: il reato c'era già e l'ergastolo pure ma si trattava di una delle tante modalità di compiere un omicidio magari aggravato dal contesto relazionale e di parantela. Il fatto che la legge che c'era funzionasse e sortisse gli stessi ergastoli che la nuova norma si propone è provato dalla cronaca anche recente: gli assassinii di Giulia Cecchettin, Giulia Tramontano, Francesca Deidda, tutti giunti da poco al giudizio di primo grado, hanno condotto a tre condanne all'ergastolo.
Il senso di una legge, tra valore simbolico ed efficacia
Anche per questo attorno a questa legge che la politica unanime saluta come un successo dal valore simbolico, c'è stato in realtà un intenso dibattito, che ha coinvolto giuriste, centri antiviolenza, adetti ai lavori, e non perché non sia percepito, anzi, il problema della sicurezza delle donne in contesti relazionali, anzi. Il disvalore del "femminicidio" non è in discussione in alcun contesto. Quello che ha fatto e farà a lungo discutere è se fosse necessario istituire una legge e un reato ad hoc per fatti che trovavano già spesso con le leggi che già c'erano la massima sanzione prevista dell'ordinamento.
In mancanza di un vuoto normativo c'era davvero bisogno di una legge specifica? Se lo chiedono molti giuristi. E, soprattutto, al di là del fatto simbolico di dare un nome alle cose per prendere coscienza della loro gravità - fin qui la nozione di femminicidio nella maggior parte dei Paesi, Italia compresa, era sociologica non giuridica - la nuova legge aiuterà a tutelare di più le donne a rischio e a contrastare meglio un fenomeno che in Italia riguarda il 30% circa degli omicidi volontari in un anno che hanno un tasso tra i più bassi al mondo?
La risposta non è univoca, sul valore simbolico i giuristi si dividono e ci sono dubbi che riguardano diversi aspetti, a cominciare dalla scrittura della legge. La prima critica, - che aveva visto schierarsi per iscritto negli scorsi mesi 90 docenti universitarie e avvocate penaliste tutte donne - riguardava la scarsa determinatezza del reato per com'era stato disegnato: una norma troppo vaga, di difficile interpretazione avrebbe potuto rendere la nuova norma meno efficace rispetto a quella che già c'era. Una critica unanime tra gli esperti che ha portato la Commissione giustizia guidata da Giulia Bongiorno a emendare il testo per definire un po' più precisamente il nuovo "femminicidio".
Il testo inizialmente parlava di «atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, per reprimere l'esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l'espressione della sua personalità». Una defininzione ritenuta vaga. Mancava l'aspetto relazionale e soprattutto l'elemento del «rifiuto della donna a stabilire e o mantenere una relazione affettiva», o anche a voler «subire una condizione di soggezione o comunque una limitazione delle sue libertà individuali».
Stessa gravità pene diverse?
Il concetto è stato esteso anche a chi si percepisce come donna, ma non lo è anagraficamente, perché diversamente si sarebbe potuto avere qualche problema di costituzionalità, in tema di cittadini eguali davanti alla legge. Anche se ci sono giuristi che ancora si interrogano, per esempio Gian Luigi Gatta, docente di Diritto penale alla statale di Milano, sul fatto che sia costituzionale prevedere, per esempio, una gravità diversa, per situazioni analoghe, se la vittima è una donna anziché, per esempio, un omosessuale ucciso dal compagno.
È un problema che potrebbe porsi, nel caso in cui si verificasse un evento simile, perché - non potendo il diritto penale agire per analogia - si avrebbe una condotta uguale punita in modo diverso: è un po' quello che accaduto con l'omicidio stradale. Quando un omicidio colposo analogo a quello compiuto con una macchina è stato compiuto su un lago con una barca, per evitare incoerenze al sistema, e l'ingiustizia sostanziale di punire la stessa colpa con pene di differente gravità, c'è stato bisogno di introdurre d'urgenza un omicidio "nautico". Ma così si rischia di dover scrivere continuamente nuove leggi per inseguire la realtà, sempre più fantasiosa del più fantasioso dei legislatori.
Discorso simile vale per il bisgno della nuova legge sul feminicidio di derogare al limite dei 45 giorni alle intercettazioni, introdotto recentissimamente (in vigore dal 24 aprile). Un sistema che continua a fare e disfare, a mettere regole e a introdurvi deroghe rischia di incamerare continuamente fattori di incoerenza e confusione, in definitiva di promettere molto per funzionare poco.
Pro e contro
Se è considerato unanimemente importante l'aumento di tutela ai figli delle donne rimaste compromesse da tentativi di femminicidio, diffusa è invece la critica alla legge di essere "in invarianza finanziaria", ossia a costo zero: senza un euro in più di copertura finanziaria per la prevenzione di un reato che tutti riconoscono a matrice socio-culturale e quindi difficilmente contrastabile contando solo sulla speranza che la minaccia di un ergastolo secco, senza la modulazione della pena nel massimo e nel minimo, possa indurre a desistere dal proposito di uccidere la donna con cui si sta o si è stati in relazione.
L'ESPERIENZA DELL'AMERICA LATINA
Il reato ad hoc di femminicidio o femicidio esiste da anni in alcuni Paesi dell'America Latina, dove il fenomeno è molto diffuso, ma la sua efficacia preventiva secondo gli studiosi tutta da dimostrare: «In un contesto culturale e sociale come quello di molti Paesi del Centro e Sud America, che hanno statistiche non lontane da quelle del Messico, la presenza di una forte componente discriminatoria, sessista, violenta contro le donne giustifica o comunque spiega un’operazione legislativa di costruzione (in anni passati, invero) di un delitto autonomo di femminicidio, scrive Massimo Donini Ordinario di Diritto Penale alla Sapienza. «Certo, si tratta di vedere quale carattere di determinatezza abbia il ricorso frequente alla definizione legale del reato come uccisione di una donna “a causa della sua condizione di donna” da parte del marito, ex marito, compagno o ex compagno, oppure in determinati contesti di relazioni, ovvero per misoginia, o con disprezzo del corpo della vittima etc. Sono numerose le definizioni che presentano aspetti problematici».
Ma è secondo il professore una dimesione del fenomeno non paragonabile a quella dell'Italia, dove gli omicidi volontari di uomini e donne in un anno sono circa 300, un tasso tra i più bassi della media Ue, contro i circa 30mila annui del Messico.
LA RICHIESTA DI PREVENZIONE
«Temo», scriveva il 3 giugno scorso a proposito dell'efficacia della nuova legge sulla rivista online dell'Università di Trento, Elena Mattevi, ricercatrice, tra le proponenti del documento firmato dalle 90 giuriste, «che la proposta di introdurre una fattispecie autonoma si inserisca piuttosto in una tendenza che suscita una certa preoccupazione: quella per cui si assiste a campagne mediatiche ad alto tasso emotivo che ingenerano preoccupazione nei cittadini, rispondendo alle quali si ricorre al diritto penale come ad una sorta di “ansiolitico sociale”, per utilizzare un’efficace espressione di una collega, senza nessuna preoccupazione per l’impatto dell’intervento normativo in termini di efficacia ed effettività. Possiamo pensare davvero, per esempio, che un uomo lasciato dalla sua compagna, incapace di accettare o gestire il rifiuto e l’abbandono e che non sia ancora riuscito ad interiorizzare i valori della libertà della donna o più in generale della persona diversa da sé, si faccia dissuadere dal commettere un reato di omicidio – o di femminicidio, in ipotesi di accoglimento della proposta di riforma – visto che la pena prevista potrà essere sempre quella dell’ergastolo e non più invece quella della reclusione di minimo ventuno anni, aggravabile comunque fino all’ergastolo in presenza delle circostanze sopra ricordate?»
Per concludere: «Temo che sposando una logica meramente punitiva, con l’illusione di aver trovato finalmente una buona soluzione, si finisca per dimenticare l’obiettivo principale: quello di lavorare sulle politiche di prevenzione, provando davvero ad intercettare in tempo e ad evitare queste tragedie che rappresentano una delle espressioni più gravi delle diverse forme di discriminazione e violenza che caratterizzano in misura sempre più preoccupante la nostra società. Gli investimenti da fare sono cospicui, in termini economici, relazionali, affettivi e, naturalmente, culturali» . Sono gli stessi argomenti che ricorrono nelle riflessioni delle associazioni che si occupano di donne a rischio e dei Centri antiviolenza che non smettono di ricordare che il rassicurare non sempre basta a introdurre sicurezza effettiva.