Flavio Tranquillo, tra i massimi esperti di Nba (Lega professionistica basket Nord America), qualche tempo fa ha scritto per Add un libro intitolato Lo sport di domani, in cui ha posto profeticamente alcuni problemi di cultura ed economia dello sport, che in questi giorni stanno esplodendo scalzando dal dibattito persino la pandemia. Gli abbiamo chiesto di aiutarcia capire che cosa succede ora che la Superlega si sgonfia e che cosa si dovrebbe fare a proposito di "diritto" allo sport.
Ci hanno raccontato l’idea della Superlega così: Paperone e Rockerduck si sono messi d’accordo per portare via il pallone a Paparino e ai nipotini. Paperopoli è insorta dall’alto e dal basso e ha reso il pallone a Paperino e QuiQuoQua. Se Paperone e Rockerduck vogliono giocare devono farlo con loro. Le cose stanno così?
«Evidentemente no, non è stata una schermaglia tra buoni e cattivi, ma una questione di economia tra professionisti, anche se sempre all’economia sono legati altri fattori psicologici, sociologici, politici, culturali. Non è questione ricchi e poveri, ma di valore, di posizionamento sul mercato e di creazione di valore e di miglioramento/peggioramento/frazionamento del posizionamento sul mercato. Tutte le teorie economiche dimostrano che dentro ai mercati si formano dei settori, definiti come insieme di aziende omogenee, e questi settori o subsettori sono mobili, dinamici, cambiano a seconda di quello che succede dentro e fuori dal mercato, dentro e fuori dall’economia. Detto questo, quando parliamo di sport professionistico, parliamo di un mercato un po’ particolare. In nessun altro mercato ci si trova costretti ad accordarsi con quasi tutti i propri più acerrimi nemici/concorrenti per stare meglio sul mercato. Di solito nei mercati normali ci sono le fusioni, gli acquisti, il più forte mangia il più debole. Qui si è “condannati” a consorziarsi perché nessuno può giocare da solo: Juventus-Juventus o Genoa-Genoa non sono partite possibili. Se da un lato è facile capire perché soggetti con una determinata scala a livello industriale siano stati tentati di convergere in qualcosa di omogeneo che è nei loro migliori interessi singoli e combinati. Altrettanto è facile capire come questa tentazione dispiaccia ad ex alleati, enti regolatori, organizzatori o comunque coordinatori. Detto questo la Superlega non è stata un’idea nata e morta in due notti a 48 ore di distanza, ma qualcosa di cui s’è iniziato a parlare nel 2016 tra il proprietario di una squadra Nfl (Lega professionistica football americano Nord America) e cinque club inglesi a Londra».
Intanto però il sistema calcio professionistico europeo sta viaggiando su un binario lontanissimo dalla sostenibilità economica, sgonfiata la Superlega possiamo andare avanti così?
«Ci hanno raccontato la favola di un calcio nostalgico, buono, romantico contrapposto a un calcio freddo, affarista. La verità è che siamo di fronte a due livelli di calcio professionistico entrambi in difficoltà finanziaria, che sulla questione Superlega si sono trovati con interessi contrapposti. Il sistema calcio è in queste condizioni, tipiche di consorzi che hanno risultati economici negativi, decisamente non episodici, che hanno intaccato il ciclo di cassa (cioè l’equilibrio uscite/entrate ndr.). Per restare in piedi a questo livello di consumo di cassa le società grandi e meno grandi si sono indebitate. I fondamenti dell’economia spiegano come a un certo punto, fatalmente, questo gioco finisce (male). Se è questo il punto, il problema non riguarda le 12 società che hanno fatto e disfatto il progetto della Superlega, e non si risolve rimuovendo dal tavolo il tema della Superlega, perché anche le altre su scala minore sono indebitate e oltretutto la loro esistenza dipende dall’esistenza di quelle 12: perché questo sistema fin qui ha retto perché le grandi si indebitano perché sono “troppo grandi per fallire” e vanno avanti (ma fino a quando?), mentre le altre risolvono una piccola parte dei loro problemi, oltre che con pratiche di creative accounting (contabilità creativa), vendendo i giocatori a quelle del piano di sopra. Se quelle del piano di sopra non trovano i soldi per comprare, la festa per tutti».
Si dice: il sistema attuale almeno è meritocratico. Dà ai piccoli una possibilità di giocarsela. Ma è davvero così o la meritocrazia è più sulla carta che reale?
«Direi che è più virtuale che reale, ma c’è anche una questione più grande che ricomprende tutto questo: si chiama equilibrio competitivo. In questo momento è innegabile che economicamente parlando il modello di successo sono le leghe professionistiche americane (Nba etc...ndr.): rivaleggiano in quanto a ricavi con il calcio europeo ma fanno profitti e hanno bilanci in attivo. Le leghe americane sono fondate sul concetto di equilibrio competitivo: non saprei dire se la Superlega avrebbe aiutato l’equilibrio competitivo, nessuno lo sa perché ne abbiamo conosciuto solo il guscio vuoto di un sommario comunicato, quello che so è che nel sistema del calcio europeo attuale l’assenza di equilibrio competitivo è conclamata: nel medio-lungo periodo vincono sempre gli stessi, perché non essendoci alcun limite a quello che può essere speso, chi spende cento batte quello che spende uno».
A questo discorso si alza un coro di repliche: ma almeno ci sono stati il Cagliari di Riva, il Verona di Bagnoli, il Leicester e l’Atalanta in Champions...
«Sì, non a caso citando esempi che tutti ricordiamo proprio perché sono assolute eccezioni: un pugno di casi in 50 anni. Non bastano certo a compensare il canyon che da mezzo secolo separa l’élite dal resto. Qualsiasi analista di mercati sportivi definisce questo squilibrio estremamente negativo, per molte ragioni tra cui quella che un campionato troppo prevedibile, in cui vincono sempre gli stessi, non è interessante. Abbiamo sentito in questi giorni parlare di “diritto” a giocare con le più forti... Ma davvero qualcuno può rivendicare il diritto di andare a perdere 98 volte su cento contro quelli che spendono di più, solo perché gli arrivano le briciole? Possono valutare che gli va bene così, che ne sono anche contenti, ma non siamo nel campo dei diritti. Dire che un sistema in cui il ricco diventa più ricco e il povero più povero come sta succedendo nell’attuale sistema del calcio europeo sia democratico, etico, meritocratico non è credibile»
Chi ha avversato l’idea della Superlega sostiene che il suo stesso concetto avrebbe fatto sistema di questo squilibrio, rendendo impossibili le eccezioni.
«L’equilibrio competitivo è un pilastro delle Leghe professionistiche americane, loro lo perseguono con appositi strumenti. La domanda è come si pongono: la Uefa, la Figc, il torneo dei bar, la Superlega se mai dovesse un giorno nascere, rispetto a questa questione? Una volta che ci rispondono, potremo dire sì è una buona idea, no è una cattiva idea. A patto che sia chiaro che l’equilibrio competitivo, come la democrazia, è un concetto complesso: non basta mettere una regolina per ottenerlo. Il merito, lo abbiamo sperimentato tutti a scuola ogni volta che abbiamo preso un voto più alto o più basso di quello che ritenevamo di prendere, è una questione complicata, che non può facilmente essere liquidata come: mi sono qualificato dunque ho meritato. Nel sistema attuale per esempio la mia qualificazione dipende dalla mia capacità di spendere, dalle mie qualità agonistiche ma soprattutto dalla maggiore o minore difficoltà del mio campionato. Faccio un esempio, per far capire la complessità: se io per scelta democratico-solidale mi invento una Coppa delle Nazioni per club stabilendo che entra la vincente del campionato di ogni Nazione, includendo tra le Nazioni Vaticano e San Marino, è evidente che chi vince il campionato di san Marino non ha per definizione più merito sportivo di chi è arrivato 11° in Premier League, 9° in Spagna, 7° in Italia. La questione può essere affrontata ragionandoci seriamente, sempre atteso che, dato che di professionismo stiamo parlando, se io sono un imprenditore devo coniugare questo, perché più c’è merito sportivo più la manifestazione è credibile in assoluto, con il posizionamento sul mercato e con il fatto che se non c’è omogeneità non c’è neppure equilibrio competitivo».
Noi ragioniamo di sport come se fosse un tutt’uno, senza distinguere tra sport per tutti e sport professionistico. Tra i due c’è un’osmosi: se hai una grande e buona base di sport per tutti nascono più campioni; se hai grandi campioni professionisti, più bambini sceglieranno lo sport da loro rappresentato. Al di là di questo, si tratta di due realtà che sono e devono restare distinte?
«Anticipando la risposta semplice, direi di sì, ma intendiamoci sul “distinte”. Il bambino che gioca e sogna vedendo il campione e il campione che lo ispira sono una parte importante di una cosa più complessa: io sento parlare tantissimo (lo sport professionistico ne parla tantissimo, chi ha “difeso” il calcio dalla Superlega ha fatto molto leva su questo) di tutelare il sogno dei bambini di diventare il campione che 999,8 bambini su mille non diventeranno mai. Vedo invece pochissimo investimento e attenzione per l’inestimabile potenziale che lo sport come concetto generale può avere sullo sviluppo fisico, mentale, educativo, formativo di tutti i bambini. Qui qualcosa non funziona. Non è possibile che una parte così significativa del mondo culturale, accademico, politico, delle professioni si sia accapigliata sul presunto “diritto” di professionisti a giocare nel campionato della Coppa A e della Coppa B e che nessuno di questi abbia mai preso a cuore, al di là di generici auspici e promesse mai mantenute, il come tradurre il diritto di bambini e adolescenti di fare sport e il dovere di chi, nella società, è deputato a darglielo. Mi diranno che è benaltrismo. Ma io dico che funzione sociale di un’impresa privata, fosse anche di sport professionistico, è quella di fare bene l’impresa privata. La funzione sociale dello Sport come attività è quella di dispiegare tutto il suo potenziale formativo, educativo, culturale... Non è la stessa funzione sociale, in questo senso professionismo e sport per tutti devono restare distinti: una cosa è lo sport di un esercito di 99,8% persone, altro è lo 0,2% anzi meno di professionisti: identificare lo sport con i secondi è una distorsione. Sarebbe come se ci occupassimo solo degli scrittori di altissimo livello e non ci preoccupassimo di alfabetizzare i bambini. Noi pensiamo a dare tutti la lettura e la scrittura, se poi qualcuno diventa Pirandello ne siamo felicissimi, se quel talento rende economicamente tanto meglio, ma Stato e società devono continuare a preoccuparsi di alfabetizzare i bambini».
Nel libro si parla di Sport e cultura, tema eretico: si guardano ancora in cagnesco?
«Sì. Senza entrare in irrisolvibili dilemmi uovo/gallina ci sono responsabilità da entrambe le parti: complesso di inferiorità da una parte, complesso di superiorità dall’altra. Ci sono certo persone coltissime e poco conosciute nello sport, ma c’è anche un grande vuoto: come società ci si occupa pochissimo del modo di dare a tutti i bambini la possibilità di fare sport, lasciando la questione, per lo più, alla buona volontà di tanti volontari. Ma ancora meno di come far crescere la cultura dello sport, di che senso ha farlo, del significato della vittoria e della sconfitta, della sua dimensione psicologica e pedagogica. Anche per questo credo, poi, a posteriori ci dobbiamo preoccupare dei genitori che si picchiano sulle tribunette, degli insulti all’arbitro nei tornei tra bambini».