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venerdì 11 ottobre 2024
 
 

Franz Kafka, un Giobbe senza salvezza

13/06/2024  I suoi libri sono un corpo a corpo con la verità, un grido contro l’ignoto e la menzogna. Per questo può essere paragonato al personaggio biblico, come osserva il cardinale Ravasi, ma in lui non c’è redenzione. L’analisi di Giorgio Fontana e Mauro Covacich

Perché,a un secolo dalla morte, continuiamo a essere affascinati da un autore le cui opere risultano inquietanti, enigmatiche, tutt’altro che rassicuranti e consolatorie? Che ci mettono drasticamente di fronte a domande e situazioni senza risposte e vie d’uscita? Si può partire da qui per ricordare Franz Kafka, il geniale scrittore boemo spentosi il 3 giugno del 1924.

«Nessuno ha avuto una simile fede nella letteratura, intesa come via per arrivare alla verità, alle cose ultime. La sua è una concezione quasi religiosa della scrittura», osserva Giorgio Fontana, che di recente ha pubblicato Kafka. Un mondo di verità (Sellerio). «A essa affidava il compito di mettere a nudo le contraddizioni e le menzogne del mondo, di mettere sé stesso e i lettori sulla strada che porta alla verità, per quanto dura». «In una lettera del 1904, quando era appena ventenne, Kafka paragona la letteratura a “un pugno sul cranio”, un’ascia che spezza “il mare ghiacciato dentro di noi”», ricorda Mauro Covacich, in libreria con Kafka (La nave di Teseo). «È uno scrittore radicale a cui non interessa l’intrattenimento o l’evasione, per lui la scrittura è una forma di conoscenza che ha la missione di spaccare la crosta che tiene celato il cuore recondito dell’animo umano. I libri che gli interessano – prima come giovane lettore, poi come autore – sono quelli che vanno oltre la realtà, ovvero la quotidianità, la forma esteriore delle cose e dei rapporti, tesi alla verità nuda e cruda. La letteratura ci deve condurre in luoghi dove non vorremmo andare, dove scopriamo di essere degli insetti, come accade a Gregor Samsa in La metamorfosi».

Una specie di monaco con la vocazione per la verità, armato della scrittura, dunque. Ma qual è la verità di cui parla? «Alcuni temi sono noti a tal punto da essere diventati luoghi comuni, come l’aggettivo kafkiano: il potere inaccessibile e opprimente; una burocrazia soffocante e implacabile…», osserva Fontana. «Ci sono però altre questioni fondamentali. La città, che assomiglia alla sua Praga, come sfondo tentacolare che avvolge i protagonisti. Il lavoro: quale professionista nel ramo assicurativo, Kafka conosceva bene le dinamiche del mondo aziendale e rappresenta con realismo lo sfruttamento; Gregor Samsa è terrorizzato dall’idea di arrivare tardi in ufficio e viene richiamato all’ordine da un capo che piomba a casa sua quando è già trasformato in insetto. Ne Il disperso o America il protagonista Karl svolge un lavoro più degradante dell’altro in quella che avrebbe dovuto essere la patria delle opportunità… E infine la famiglia: per Kafka, al di là dell’analisi psicanalitica del difficile rapporto con il padre, non è tutt’altro che un riparo dal mondo».

L’ipotesi di Covacich è che la categoria che attraversa tutta la sua opera ispirandola sia quella della colpa, «radicale, assoluta, ontologica, che precede persino il peccato originale – abbiamo mangiato la mela a causa di questa colpa, non viceversa – e i singoli misfatti che l’individuo può aver commesso. La colpa degli esseri viventi – non solo degli uomini, ma anche degli animali, così presenti nell’opera kafkiana – è semplicemente quella di essere al mondo, ed è per questo che non esiste scampo per nessuno». E altrettanto decisiva è la condizione di estraneità esistenziale, culturale, linguistica che caratterizza Kafka: «Possiamo dire che trova la sua identità nella non appartenenza. Non appartiene alla propria religione: è ebreo, ma agnostico, non praticante; scrive in una lingua, il tedesco, che non è la sua; non si sente accolto nella sua famiglia perché non risponde alle aspettative del padre che lo voleva avvocato e poi nella sua ditta; sembrò più volte sul punto di sposarsi, ma non si risolse mai a farlo».

Di certo fu uno scrittore «dotato di un’immaginazione e una capacità descrittiva che hanno pochi eguali, con un senso del ritmo naturale», dice Fontana. «Fu tra i primi a praticare la “focalizzazione ristretta”: nelle sue pagine non troviamo mai un narratore onnisciente, come ad esempio in Manzoni, ma il lettore vede e sente solo ciò che il protagonista stesso sta vivendo. Nessuno ci aiuta a decifrare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi e veniamo trascinati nello stesso spaesamento che attanaglia il protagonista». Il suo è uno stile limpido, preciso, chirurgico. Caratteristiche determinate dal fatto, ricorda Covacich, «che scriveva in una lingua non sua, ma appresa, il tedesco: non la lingua della quotidianità, delle relazioni, bensì decontestualizzata, privata delle sfumature che innervano il nostro parlato».

Dove ci voleva portare Kafka, dunque, usando la letteratura come un’ascia, come un pugno in faccia? A una verità scevra da menzogne e ipocrisie, certo, ma incompatibile con qualsiasi salvezza, redenzione o consolazione? I saggi di Fontana e Covacich convergono nell’indicare che per Kafka la salvezza sta proprio in questo guardare in faccia la verità, senza indietreggiare. Nei suoi personaggi resiste una dignità, un senso etico che si esprime in una lotta, una ribellione contro il potere, l’enigma inafferrabile che ci condanna. Siamo sconfitti, ma non abneghiamo un senso di giustizia che sopravvive, al di là di tutto. Come scrive il cardinale Ravasi nel saggio del numero di marzo-aprile di Vita e Pensiero, l’opera di Kafka assomiglia alla lotta e al grido di Giobbe contro un Dio imperscrutabile e ignoto: senza però che alla fine, come invece accade nella Bibbia, questo Dio si manifesti per assicurargli di non averlo mai abbandonato.

 
 
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