Stefano Corghi nel suo negozio di dischi a Reggio Emilia (foto di Ugo Zamborlini)
Cos’è la Via Emilia? «È la rampa di accesso verso le città». Ha ragione Alessandro Giust, da sempre appassionato di quella strada, la Statale 9, che da oltre duemila anni collega Milano a Rimini lungo 329,300 chilometri. Quando, nel 189 avanti Cristo, il console Marco Emilio Lepido ordinò la costruzione di una strada che attraversasse la fertile Pianura Padana per facilitare i commerci, pensò proprio a questo. Solo due anni dopo (sì, i Romani del tempo ci sapevano fare) era completata e attorno al suo asse furono fondate, tra le altre, Bologna (Bonomia), Modena (Mutina), Reggio Emilia (Regium Lepidi) e Piacenza (Placentia).
L’ultimo tratto fino alle porte di Milano fu realizzato dopo alcuni decenni e questo dato è tuttora fonte di forti rivalità. «Provate a chiedere a qualunque emiliano dove finisce la Via Emilia. Vi risponderà a Piacenza», dice Alessandro nel suo negozio di articoli regalo a San Giuliano Milanese. Il fatto è che la Via Emilia è molto più di una semplice strada dove, nonostante al suo fianco siano state realizzate l’Autosole, l’autostrada Adriatica e ora la linea ad alta velocità dei treni, transitano ogni giorno più di 18 mila auto e circa 2000 camion. Basta spostarsi di pochi chilometri perché tutto, dal paesaggio al dialetto, al ripieno della pasta, cambi. Abbiamo allora provato a percorrerla tutta in una giornata, alla ricerca dei luoghi e soprattutto della gente che la rendono così unica.
Siamo partiti proprio dal negozio di Alessandro che, prima di accompagnarci, ci mostra le memorabilia che ha inventato per chi condivide il suo amore per “lo stradone”: magliette, cappelli, orologi, cinture, tutte griffate con il marchio di sua invenzione “SS9”. Lasciamo il negozio e, poche decine di metri dopo, da una rotonda trafficatissima eccoci trasportati di colpo alla fine dell’Ottocento. La ruota di un mulino, una delle più antiche di Italia, gira grazie all’acqua che scorre in un canale lungo la Via Emilia: è il Molino Fiocchi. La struttura originaria è tuttora operativa e la famiglia Fiocchi è ancora al timone dell’azienda che produce cereali. La Via Emilia è così: quando meno te lo aspetti, ti sorprende.
Il monumento di barilla. Proseguiamo tra campi di granturco, capannoni, centri commerciali, vecchie cascine, osterie a prezzo fisso e, dopo aver attraversato lo spettacolare ponte sul Po all’altezza di Piacenza, arriviamo a Parma. La Via Emilia, come fa con altre città, la taglia a metà. Subito dopo l’ospedale Maggiore, inaugurato giusto cent’anni fa, si arriva in piazza Santa Croce, su cui si erge uno stranissimo monumento che rappresenta una conchiglia. L’ha voluto il parmense Pietro Barilla per omaggiare quella strada da lui percorsa tante volte in motocicletta per far conoscere nelle botteghe la sua pasta. Anche grazie a quei viaggi riuscì a trasformare una piccola azienda di famiglia in una multinazionale. La “conchiglia” fu realizzata dall’artista Pietro Cascella, ma Barilla non vide l’inaugurazione del 1994, perché morì tre mesi prima. E ora anche la “conchiglia” non se la passa molto bene. È rimasta sola a cuocere sotto al sole: le fontane che l’abbellivano da tempo hanno smesso di zampillare ed è rimasta solo una targa striminzita a ricordare questa storia.
Ci dirigiamo allora verso Reggio Emilia per raccontare invece una storia di riscatto: quello del negozio di dischi Tosi, un’istituzione in città. Franco Tosi, lo storico proprietario, a causa della crisi era stato costretto a chiudere, ma tre suoi dipendenti, tra cui Stefano Corghi, in arte Tappo, ne hanno aperto un altro con lo stesso nome, sempre sulla Via Emilia, e l’hanno trasformato in un luogo in cui oltre a comprare Cd, 33 giri e Dvd rari, si può ascoltare musica dal vivo con una fetta di salame e un bicchiere di vino. E le cose ora vanno bene. «Sarebbe stato davvero un peccato chiudere per sempre Tosi», dice Tappo. «Tutti sono passati da noi. Ricordo Vasco Rossi all’epoca in cui faceva il dj per Punto Radio che aveva fondato a Zocca. Prendeva la Via Emilia e veniva a rifornirsi di dischi qui. Ligabue viene ancora adesso la domenica mattina da Correggio».
La musica da queste parti è anche quella dei locali da ballo nati negli anni del boom dove, come cantava Francesco Guccini, «correva la fantasia verso la prateria, tra la Via Emilia e il West». Quel mondo esiste ancora? Tappo scuote la testa. «Tornate indietro verso Parma sulla Via Emilia e all’altezza di Cella vedete cosa resta del Marabù». Lo facciamo, ma non è facile. Chiediamo indicazioni a un benzinaio: «Sì, è qui vicino, dopo la rotonda», risponde senza alzare lo sguardo. Si ballava il liscio? Alla domanda il benzinaio, un uomo sulla cinquantina, alza la testa e i suoi occhi si illuminano di colpo: «No, solo discomusic e rock. Ci andavamo tutti. Certe sere la fila delle auto arrivava fin qui». E così troviamo quel che resta del Marabù.
Inaugurato nel 1977, quando al cinema uscì La febbre del sabato sera, ha chiuso nel 2000. L’area su cui sorgeva è stata recintata e un cartello avverte: “Edificio pericolante”. L’insegna scintillante non c’è più, ma la sua originale struttura architettonica, nonostante l’assedio delle sterpaglie, resiste. A giugno in più di mille da Reggio e dintorni hanno realizzato il primo “Marabù Celebration” per celebrare un’epoca che non ritornerà mai più.
Il gigante di bologna. Risaliamo in auto e arriviamo fino alla rotonda di Borgo Panigale, porta d’accesso a Bologna. Bisogna fare molta attenzione alla guida, perché è impossibile non essere distratti dal “Monumento al camionista” o, come lo chiamano tutti, “il gigante”: uno scheletro di alluminio alto nove metri che porta sulle spalle un camion. «È l’uomo che porta a spasso il camion, metafora esistenziale del viaggio e del lavoro», disse l’autore Andrea Capucci all’inaugurazione nel 2010. Da allora l’opera è stata oggetto di elogi, ma anche di feroci critiche da parte di chi la trova decisamente kitsch. Almeno un sorriso però “il gigante” lo strappa e non è poco visto che l’insegna di una farmacia poco più in là ci informa che in questo momento la temperatura esterna è di 41 gradi.
Per fortuna possiamo godere per un po’ dell’ombra dell’officina di “B.R. Moto” di Matteo Mussi, che ci ha dato appuntamento a Ozzano dell’Emilia. Matteo, 33 anni, da dieci ripara moto, soprattutto d’epoca. E gli affari vanno benissimo. Questa è anche la terra dei più celebri marchi motoristici al mondo: da Ferrari a Ducati, da Maserati a Lamborghini. «Spesso vedo passare qui sulla Via Emilia stranieri a bordo di moto e di auto d’epoca», racconta. Anche lui, in sella a una moto, da Rimini ha percorso più volte la strada ma, ovviamente, si è fermato a Piacenza «perché per me la Via Emilia finisce lì».
È ormai pomeriggio inoltrato quando riusciamo a pranzare, ma l’attesa viene ampiamente ripagata. A Forlì la signora Vera, che gestisce il chiosco con il figlio Riccardo, ci serve tre piadine preparate secondo la tradizionale ricetta romagnola: crudo, rucola e squacquerone. «Ricordo quando da ragazza andavamo al mare a Cervia e c’era solo questa strada», racconta. «Ora tutto è cambiato, ma dalla Via Emilia si passa sempre».
Così rifocillati, affrontiamo l’ultima tappa del nostro viaggio fino a Rimini. La Via Emilia finisce, o meglio inizia, con l’Arco di Augusto eretto nel 27 avanti Cristo. Qui parte la Via Flaminia, che porta fino a Roma, costruita a partire dal 220 avanti Cristo. Ma questa è già un’altra storia.
Il monumento al camionista a Borgo Panigale (foto di Ugo Zamborlini)
Il gigante di bologna. Risaliamo in auto e arriviamo fino alla rotonda di Borgo Panigale, porta d’accesso a Bologna. Bisogna fare molta attenzione alla guida, perché è impossibile non essere distratti dal “Monumento al camionista” o, come lo chiamano tutti, “il gigante”: uno scheletro di alluminio alto nove metri che porta sulle spalle un camion. «È l’uomo che porta a spasso il camion, metafora esistenziale del viaggio e del lavoro», disse l’autore Andrea Capucci all’inaugurazione nel 2010. Da allora l’opera è stata oggetto di elogi, ma anche di feroci critiche da parte di chi la trova decisamente kitsch. Almeno un sorriso però “il gigante” lo strappa e non è poco visto che l’insegna di una farmacia poco più in là ci informa che in questo momento la temperatura esterna è di 41 gradi.
Per fortuna possiamo godere per un po’ dell’ombra dell’officina di “B.R. Moto” di Matteo Mussi, che ci ha dato appuntamento a Ozzano dell’Emilia. Matteo, 33 anni, da dieci ripara moto, soprattutto d’epoca. E gli affari vanno benissimo. Questa è anche la terra dei più celebri marchi motoristici al mondo:da Ferrari a Ducati, da Maserati a Lamborghini. «Spesso vedo passare qui sulla Via Emilia stranieri a bordo di moto e di auto d’epoca», racconta. Anche lui, in sella a una moto, da Rimini ha percorso più volte la strada ma, ovviamente, si è fermato a Piacenza «perché per me la Via Emilia finisce lì».
È ormai pomeriggio inoltrato quando riusciamo a pranzare, ma l’attesa viene ampiamente ripagata. A Forlì la signora Vera, che gestisce il chiosco con il figlio Riccardo, ci serve tre piadine preparate secondo la tradizionale ricetta romagnola: crudo, rucola e squacquerone. «Ricordo quando da ragazza andavamo al mare a Cervia e c’era solo questa strada», racconta. «Ora tutto è cambiato, ma dalla Via Emilia si passa sempre».
Così rifocillati, affrontiamo l’ultima tappa del nostro viaggio fino a Rimini. La Via Emilia finisce, o meglio inizia, con l’Arco di Augusto eretto nel 27 avanti Cristo. Qui parte la Via Flaminia, che porta fino a Roma, costruita a partire dal 220 avanti Cristo. Ma questa è già un’altra storia.