Ricorda ancora l’ora precisa dell’ultimo ciak: 3 del mattino del 28 agosto 2018. Poi «stanco ma felice», come si dice in questi casi, ha concluso l’impresa mangiando salsicce seduto attorno al fuoco con tutta la troupe. Valeva la pena di festeggiare: fra ideazione, ricerca dei finanziamenti e riprese, il film gli ha “stravolto” la vita per 8 anni. Gianni Aureli è il regista di Aquile Randagie, il lungometraggio che racconta la storia degli scout che dissero no al fascismo, dal 30 settembre al cinema. Un’impresa, quella dello scoutismo clandestino, durata 16 anni, 11 mesi e 5 giorni, che Aureli ha raccontato studiando i documenti, intervistando testimoni e studiosi, coinvolgendo attori professionisti ma anche semplici scout come comparse. Tante scene corali, tutte in costume: niente male per un film d’esordio. E pensare che l’idea è nata mentre era comodamente sdraiato su un lettino al mare. «Sentivo di dover dar voce a una storia tanto importante quanto ancora troppo poco conosciuta», si schermisce il regista romano, 38 anni.
Aureli, chi erano le Aquile Randagie?
«Un gruppo di ragazzi, scout cattolici di Milano e Monza, che si ribellarono al regime. Quando, il 9 aprile 1928, Mussolini dichiarò soppresse tutte le associazioni giovanili non fasciste, Asci (Associazione scautistica cattolica italiana, ndr) compresa, continuarono a riunirsi a loro rischio e pericolo. Fedeli alla Promessa scout di aiutare il prossimo in ogni circostanza erano pronti a pagare di persona per i valori in cui credevano. Agirono con coraggio e, forse, anche con un po’ di incoscienza! Sui muri delle stazioni della linea Milano-Colico (che frequentavano per raggiungere località sicure per gli attendamenti, come Colico e la Val Codera, ndr) campeggiava il motto fascista “Solo Iddio può piegare la volontà fascista”. Ebbene, loro ebbero l’ardire di aggiungere “Speriamo in lui”. Dal 1943 alcuni di loro diedero poi vita all’Oscar, acronimo di Opera scautistica cattolica aiuto ricercati, portando in salvo in Svizzera più di duemila persone».
Come si sente a pochi giorni dall’uscita del film nelle sale?
«Emozionato. Abbiamo avuto decine di migliaia di prenotazioni e sento una grande responsabilità».
Ha conoscuto dal vivo qualcuno dei protagonisti di allora?
«Sì, don Giovanni Barbareschi, ultima Aquila Randagia a essersene andata, nel 2018, e Mario Isella, morto nel 2014. Di don Giovanni ricordo il sorriso. Mi raccontò episodi terribili con lo stesso spirito sereno e la stessa ironia con cui aveva affrontato la detenzione nel carcere milanese di San Vittore. Rivendicava tutte le scelte fatte, assumendosene la responsabilità. Isella? Quando gli dissi che per noi le Aquile Randagie erano degli eroi, lui si schermì. Ma mentre parlava dei suoi capi gli si illuminavano gli occhi: erano ragazzi poco più grandi di lui e si assunsero un rischio enorme perché credevano nell’educazione. Per lui, loro sì erano eroi».
Chi erano i responsabili di questi giovani?
«Ne cito tre per tutti: Giulio Cesare Uccellini - Kelly, il suo soprannome per preservare l’anonimato - che alla vita familiare scelse l’impegno di educatore, e per questo venne malmenato con danni permanenti all’udito e all’equilibrio; Virgilio Binelli - Aquila rossa - che subì un interrogatorio con diffida da parte della Polizia militare, e don Andrea Ghetti - Baden -, una vita spesa per la carità e l’educazione (tra i tanti suoi incarichi, fu poi parroco a Santa Maria del Suffragio a Milano, dal 1959 fino alla morte nel 1980, ndr)».
Cosa hanno oggi da insegnare le Aquile Randagie?
«Direi l’amore, l’accoglienza, il rispetto della vita umana. E ancora, il coraggio, l’adesione a un ideale e la forza di andare avanti sempre».
Quanto contava, per loro, la fede?
«Era un aspetto fondamentale. Certamente negli anni Venti, Trenta e Quaranta del secolo scorso la società italiana era generalmente “più cattolica” di adesso, ma non è un caso che fra le Aquile Randagie siano nate diverse vocazioni. Lo stesso Kelly, che pure era laico, aveva fatto un voto: se lo scoutismo fosse durato un giorno in più del fascimo avrebbe portato a Lourdes i suoi ragazzi. E così fece».
Aureli, qual è stato invece il suo cammino umano e spirituale?
«Sono cresciuto in una famiglia praticante. Dai 16 ai 21 anni mi sono un po’ allontanato dalla Chiesa ma sono sempre stato scout, prima nell’Associazione italiana guide e scout cattolici d’Europa (Fse) poi in Agesci (Associazione guide e scouts cattolici italiani), e questo mi ha aiutato nel cammino di fede. Inoltre ho conosciuto tanti sacerdoti e frati in gamba...».
Lei ancora oggi si spende come educatore in Agesci. Come si trasmette la fede ai più giovani?
«Ascoltando e dando testimonianza, innanzitutto. Uno dei capisaldi del pensiero di Baden Powell (fondatore dello scoutismo, ndr) era Ask the boy, ovvero “Chiedi al ragazzo”: ecco, anche la Chiesa deve ascoltare, interpellare, i giovani. E poi serve umiltà: i ragazzi sono desiderosi di apprendere, ma l’imposizione non serve».
Come educatore cattolico, c’è un passo della Bibbia che la interpella maggiormente?
«La parabola del figliol prodigo: i ragazzi sbagliano, ma l’adulto deve essere pronto ad accoglierli, proprio come il padre della parabola. Mi piace molto anche il Libro di Qoèlet: nella vita non è tutto in mano nostra, c’è la Provvidenza».
A breve, migliaia di persone vedranno il film. Cosa si augura?
«Io ho fatto da megafono. Vorrei che gli spettatori sentissero il desiderio di approfondire ancor di più la storia delle Aquile randagie, poi toccherà a ciascuno farla propria». E il bello viene lì.