«Ho paura di tutto». Giovanni Allevi non ha mai fatto mistero delle proprie fragilità e, anche in questa intervista, le ribadisce elencandole addirittura per nome, una a una: «Non esco mai, non parlo mai con nessuno: conosco solo la via dove abito, anzi, solo un lato». Lo ammette, così, senza pudore. Senza alcuna vergogna. Giusto la coltre di riccioli neri sembra cercare di nasconderlo un po’, ma per il resto Allevi è un limpido specchio esistenziale, nel quale perdersi per poi ritrovarsi. Il celebre pianista e compositore ci rivela infatti quello che tutti noi siamo (fragili, anzi fragilissimi) e al contempo ci ricorda la forza di questa comune precarietà, declinandola in musica: una musica sempre in bilico tra stupore e terrore, vertigine e sollievo, e per questo potentissima. Il Covid-19, purtroppo, lo ha portato lontano dal suo amato piano (i concerti in pubblico sono al momento ancora vietati) e così lui ha pensato bene di… scendere in strada: di andare al di là di quell’unico lato noto di casa sua per esplorare la vita. Nonostante le sue paure. Anzi, forse proprio spinto da queste… Il risultato è il programma Allevi in the jungle, disponibile sulla piattaforma RaiPlay.
Dunque, com’è andata?
«È stato liberatorio. Quello che mi ha davvero sorpreso incontrando i buskers (gli artisti di strada, ndr) che vivono da anni in quella giungla spaventosa, è il loro sguardo sognante, la loro profonda fiducia nei confronti del mondo e dell’umanità. Si è arrivati al paradosso che loro finivano per consolare me, che invece ho paura di tutto: temo qualunque forma di cambiamento, ossessionato dal giudizio esterno per ciò che faccio. Perfezionismo, inadeguatezza e senso di colpa sono i capisaldi della mia personalità. Parlare con loro mi ha spesso commosso. Mi hanno mostrato un’Italia fantasiosa, profonda, riflessiva, assolutamente geniale».
Dostoevskij sosteneva che la bellezza salverà il mondo. È ancora così, nonostante l’imperante nichilismo?
«Il nichilismo e l’ateismo sono stati d’animo che ci stiamo lasciando alle spalle. Non sono neanche ragionevoli perché non sono rispettosi dell’immensità che anche solo un essere umano può rappresentare. Durante la pandemia, molte persone hanno fatto esperienza di un allargamento della mente: nuove passioni, nuovi orizzonti, una nuova consapevolezza. Una condizione alterata che non sarebbe stata possibile nel periodo frenetico di normalità. Tutto questo conferma l’imminenza dell’arrivo di una nuova era per le nostre vite, che porterà con sé un ritorno al sacro, una percezione diffusa del mistero: si tornerà allo sguardo incantato che solo i bambini hanno sul mondo».
Durante l’epidemia abbiamo anche sperimentato cosa sia la solitudine. E non è stato facile... Anche questo ci cambierà in meglio?
«Per me la solitudine è sempre una salvezza, in una società conformista che tende a renderci tutti uguali e ad azzerare le differenze. Nella mia esperienza di compositore, è dalla solitudine, dal silenzio, dalla lentezza che nascono le idee musicali più originali. L’umanità ora sta vivendo una solitudine collettiva, un momento di incubazione dal quale verranno partorite le idee più splendenti. Forse questa pandemia, nella sua drammaticità, è il preludio a una nuova era dove il femminile, la natura, il ritorno del sacro e lo sguardo incantato dei bambini saranno i protagonisti».
Molti credono in Dio ma, proprio come è capitato a lei in gioventù, fanno fatica a riconoscersi nell’istituzione Chiesa. Lei quando l’ha rivalutata e perché?
«Quando ero ragazzo, durante una confessione feci amicizia con un giovane parroco che era poco più grande di me: don Mauro. Lui insegnava Teologia, mentre io studiavo Filosofia all’università. Io mi avvicinavo all’ateismo, non credevo in niente, e nelle nostre discussioni sempre più frequenti, cercavo di metterlo in difficoltà con le parole, mentre lui, con pazienza e dolcezza, dimostrava una fede incrollabile. Per molto tempo andammo avanti con questo tipo di dinamica conflittuale, dove io sfogavo il mio male di vivere, il mio tormento. Lui era un parroco di periferia; pur essendo coltissimo, era vicino alla gente, ai ragazzi, e aveva trasformato la sua vita in una missione. Un giorno, all’improvviso, il mio unico amico don Mauro morì in un incidente stradale. È stata la mia prima esperienza di una perdita. Dopo il dolore vuoto, insopportabile, che ho attraversato, è accaduto in me qualcosa che non avrei mai immaginato: ho raccolto il suo testimone. Anche io avrei fatto della mia vita una missione, anche io avrei avuto fede in una scintilla divina che alloggia in fondo al cuore di ogni persona, anche io non avrei ceduto alla tentazione di una visione nichilista della vita. Ora posso affermare di credere, ed è proprio la Filosofia a darmi la forza intellettuale di abbandonare ogni certezza e aprirmi al mistero. Nono stante le difficoltà e la sofferenza che tutti siamo portati ad affrontare, l’infinito e la meraviglia si nascondono tra le pieghe dell’esistenza».
Qual è l’attualità del messaggio cristiano?
«La visione proposta oggi dal cristianesimo è assolutamente dirompente. L’attuale cultura dominante è infatti centrata sul nichilismo, per cui il nostro valore e la nostra identità dipendono esclusivamente da un giudizio e un riscontro esterno. Tutto il mondo dei social e dei talent show è fondamentalmente nichilista: contano il numero dei like e dei follower. Ecco allora sopraggiungere un’ansia diffusa, soprattutto tra i giovani: un disagio nuovo che i nostri genitori non conoscevano. Il risultato del nichilismo è un perenne senso di inadeguatezza, di esclusione dal mondo, di proiezione verso l’esterno nell’urgenza di dimostrare sempre di più. Il cristianesimo propone una visione opposta e ci dice: io posseggo un’identità, un valore, una scintilla interiore, indipendentemente da qualunque riscontro esterno, indipendentemente dal mio aspetto, dai risultati che ho ottenuto, dai giudizi e dalla stima che ricevo. I filosofi direbbero uno statuto ontologico, un senso delle cose. Tutte le più grandi personalità dell’arte, della ricerca scientifica, del pensiero, non si sono mai curate del riscontro esterno; hanno inseguito le proprie visioni anche a costo di andare incontro all’incomprensione».
Per certi versi anche lei ha inseguito una sua visione, cercando la musica per le strade. Per essere autentica, l’arte deve sempre sporcarsi le mani con la realtà?
«Vedo che ha colto l’intento un po’ sovversivo di Allevi in the jungle. Forse a causa dei miei trascorsi burrascosi con il mondo accademico musicale, voglio dimostrare che la cultura, la creatività, lo spirito innovativo, nascono dalla strada. Ciò che invece viene concepito dentro la torre d’avorio dell’accademia è autoreferenziale, finisce per perdersi dietro le nuvole della concettualità, o nella sterile ripetizione della grandezza di opere del passato».
C’è un brano della Bibbia che le sta particolarmente a cuore?
«Sono molto legato alla figura di Maria Maddalena, che si presta a interessanti e attuali interpretazioni. Credo infatti che il femminile rappresenti un principio destinato a essere protagonista del mondo futuro più bello che ci attende, là dove per “femminile” intendo una conoscenza più profonda e intuitiva delle cose, una dolcezza meno competitiva e più solidale, una accettazione del nuovo e del diverso. Quando Gesù risorto si rivolge a lei per prima, dicendole: “Va’ dai miei fratelli e di’ loro…” si intuisce come la figura femminile assuma il ruolo di interlocutore privilegiato, nella comprensione dei misteri e nel proseguo degli eventi».