Anche quando non canta, Giovanni Caccamo è sempre elegantissimo. Per questo ci stupisce vederlo con un semplice maglione nella sede della sua casa discografica, la Sugar di Caterina Caselli: «Ero uno che ci teneva ad avere sempre la camicia abbottonata in un certo modo. Poi ho capito che ci si rifugia in queste cose futili quando ci sente insicuri». Un’incertezza che è stata spazzata via da una grande novità: «L’amore ha illuminato la mia vita e ho voluto portare questa energia incredibile che sento dentro di me a Sanremo».
È nata così Eterno, la canzone che ha presentato al Festival e che dà il titolo al suo nuovo album. Anche la barba che porta è una testimonianza di questa nuova fase: «Sono stato chiuso in casa per sette mesi per scrivere le nuove canzoni e quando sono uscito mi sono ritrovato con questa barba. Ho deciso di lasciarla come ricordo di questo periodo di creatività». Con Eterno, il cantautore siciliano si è guadagnato le lodi del vescovo di Noto Antonio Staglianò, per aver cantato l’amore che dura per sempre, l’unico che «può salvare».
Hai dichiarato che per questa canzone ti sei ispirato ai tuoi nonni. Puoi parlarci di loro?
«Si chiamano Nino e Maria, vivono in campagna vicino a Modica e a quasi novant’anni nei loro occhi c’è lo stesso amore del primo giorno. Gli stessi sguardi li ho visti nei miei genitori. Mia mamma ha perso il marito quando aveva 38 anni e avrebbe tutto il diritto di avere una nuova persona accanto, ma lei continua a parlare di mio padre come dell’unico amore della sua vita. Non voglio esprimere giudizi, siamo esseri umani con le nostre fragilità, ma credo che tanto più si investe in una relazione tanto più sarà complicato far crollare questo castello messo su con tanta fatica».
La parola “eterno” non va molto di moda non solo nell’amore, ma in generale nelle relazioni, specie tra i giovani. Tu sei molto popolare tra loro, soprattutto da quando sei diventato tutor ad Amici. Che impressione hai?
«Sì, c’è la tendenza a concepire qualsiasi rapporto, dall’esperienza lavorativa alla relazione umana, come un contratto a termine: alla prima difficoltà ci si arrende. Io per realizzare questo sogno sono passato da decine e decine di porte in faccia, ma non ho mollato. Per questo il mio nuovo Cd conterrà dieci cartoline che raccontano le canzoni e poi un sacchettino con dei semi di zinnia, un fiore che rappresenta le relazioni durature. Prendete per mano le persone che amate e dedicate loro del tempo per “coltivarle”, come si fa con le piante».
Ai ragazzi fai esempi concreti?
«Racconto spesso la storia di un mio compagno di liceo. Figlio di due bancari, il fratello maggiore laureato in Ingegneria aerospaziale, i genitori dopo la maturità lo hanno fatto iscrivere all’università. Ma lui ha sempre odiato studiare: ci diceva che il suo sogno era diventare un meccanico. Ha trovato il coraggio di dirlo ai genitori e loro quasi lo hanno buttato fuori di casa. Lui ha tenuto duro, ha iniziato a lavorare in un’officina qualsiasi e nel giro di quattro anni è diventato il responsabile europeo della manutenzione delle trivelle per l’Enel. Ora guadagna tantissimo, ma soprattutto è felice. Ognuno di noi deve trovare il proprio fuoco. E quando l’ha trovato, non esiste la parola crisi: perché inizi a scoprire che tipo di concorrenza c’è, come renderti speciale agli occhi di chi potrebbe darti una possibilità, insomma, se ci credi non ti ferma nessuno».
Nel disco c’è una canzone, Altrove, in cui immagini che un padre saluti suo figlio prima di emigrare. Hai delle conoscenze dirette di queste storie?
«Frequento la Fondazione San Giovanni Battista di Ragusa che cerca di aiutare i migranti a trovare un lavoro. Capisco chi, non vedendo una speranza per i propri figli, fatica a immaginarla per altre persone che arrivano da lontano. Ma credo che prima di puntare il dito basterebbe dedicare un’ora del proprio tempo ad ascoltare le storie dei migranti: sono convinto che ogni barriera sparirebbe».
Hai registrato gli archi delle nuove canzoni a Londra negli studi di Abbey Road, quelli dei Beatles e dei Pink Floyd. Com’è andata?
«Senza avere mai sentito nulla, avendo solo le partiture, i musicisti della London Session Orchestra suonavano sulle basi di ogni canzone ed era sempre buona la prima. Noi italiani siamo abituati a dire: “Dai, facciamone un’altra per sicurezza”. Ci abbiamo provato anche con loro. Ci hanno guardato malissimo e si sono rifiutati».
Nel disco c’è anche una cover di La tua figura, una canzone che Giuni Russo scrisse ispirandosi ai versi di san Giovanni della Croce. Perché hai deciso di rivisitarla?
«In un disco che parla delle varie forme d’amore, mi è sembrato bello rendere omaggio a una canzone che sintetizza in modo sublime l’amore verso Dio. I versi finali dicono: “Come un bambino stanco ora voglio riposare, lascio la mia vita a te". Giuni li cantava quando era già molto malata. Mi dà i brividi questo suo affidarsi totalmente a Dio».