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giovedì 15 maggio 2025
 
Il ricordo
 

Gpo e Famiglia cristiana. Un rapporto lungo tutta una vita

29/12/2024  Il ritratto di Gian Paolo Ormezzano che pubblicammo per i 90 anni del nostro settimanale

In arte Gpo, Gian Paolo Ormezzano, è un uomo senza spigoli: rotondo e generoso, nell’aspetto e nell’animo. Assomiglia alla sua scrittura: un periodare sinuoso, dove ogni parola si incatena alla precedente, difficilissimo, se non impossibile, da tagliare (ma precisissimo nelle misure, con l’accortezza di lasciare anche lo spazio per la firma) perché non c’è mai una parola di troppo, né una scelta a caso. Un flusso continuo dalla mente alle mani sulla tastiera, che non si interrompono neppure se lo chiamano e guarda altrove, per arrivare alla voce, con cui parla esattamente come scrive, di sport ma non solo, senza prenderlo né prendersi troppo sul serio.

«Lavoravo per Tuttosport all’epoca e collaboravo con Orizzonti, Famiglia Cristiana arrivò nella mia vita mentre stavo preparando la valigia per l’Olimpiade di Roma 1960», la prima di un’infinità, edizione ancora umanissima in cui poteva accadere che un giornalista torinese riportasse a casa in auto Livio Berruti, il Bolt del momento, campione olimpico e recordman dei 200 metri, senza che sembrasse strano: un sodalizio che dura ancora, quando possibile, attorno a una tavola a base di “plin” e bollito. «Mi chiamò don Giuseppe Zilli, il direttore di allora, e credo che il suo affetto mi abbia aperto le porte con chi è venuto dopo. Ho coperto sport in lungo e in largo, anche temi, non solo personaggi, libero di scrivere senza che mi abbiano censurato in decenni una sola parola. Dopo l’attentato di Monaco 1972 (un commando palestinese prese in ostaggio la palazzina israeliana al Villaggio olimpico, provocando una strage: 11 atleti ospiti, un poliziotto intervenuto e 5 terroristi morti, ndr), don Leonardo Zega, allora vicedirettore, mi chiamò chiedendo un pezzo per dire “Fermiamo i Giochi”. Risposi che la vedevo diversamente, che così la si dava vinta ai terroristi. Mi rispose: “Va bene, scriva quello che pensa. Ma in prima persona così se ne assume la responsabilità”. Dopo mi ha dato ragione. Nel 1978 don Zilli ebbe un grave incidente stradale, andai a trovarlo in ospedale. All’epoca dirigevo Tuttosport. Commosso, mi disse: “Ma come, con tutto quello che avrà da fare, viene a trovare un povero Cristo come me?”, una frase che dava l’idea della persona».

Si sarebbe detto difficile tenersi in bilico tra gli impegni diversi: «E invece nessuno di quelli che mi mandavano per il mondo a seguire eventi trovava da ridire sul fatto che ne scrivessi, con tagli e tempi diversi, anche su Famiglia Cristiana: era un valore aggiunto. Apriva porte. Quando, durante i Giochi africani, riuscii ad arrivare nel 1973 da Lagos al Biafra, affamato dalla recente guerra civile, la patente morale di Famiglia Cristiana mi fece accogliere dai missionari irlandesi, persino con un pezzettino di pollo da pescare con le mani nel brodo bollente. Non solo, senza la spinta di tre seminaristi campani, che mi conoscevano grazie a FC, mai avrei concluso a 60 anni la maratona di New York».

Il difficile negli anni, poco tecnologici, degli inizi erano i tempi di chiusura, con la consegna molto anticipata rispetto all’uscita, equilibrismi per starci dentro senza finire in un buco nero: «A volte dovevo barare un po’, scrivere cose del tipo “indipendentemente dall’esito finale, l’evento ha significato questo”, quando ancora non sapevo il risultato. Non sempre andava bene, il marito di Carla Fracci mi chiese ridendo di intercedere perché non vedeva più sua moglie su Famiglia Cristiana se non nella pubblicità di un sapone, dacché il loro figlio era, improvvidamente, nato in anticipo, tra la chiusura della copertina che la voleva “in attesa” e l’uscita del numero».

A chi gli chiede quali sport abbia seguito di più su queste pagine, risponde con un «Tutto», sintesi lapidaria che racchiude l’universo mondo. Racconta di un’epoca in cui era possibile essere spediti dal Messico a San Paolo del Brasile come fosse di strada: «A intervistare Pelé, avendo un rapporto diretto con i campioni che l’era di addetti stampa e procuratori ha mandato in soffitta; dopo aver risposto a un po’ di domande, O Rei mi disse, mischiando spagnolo, italiano e portoghese: “Adesso però chiedi qualcosa anche ai miei compagni”. Bello no? Passai del tempo a osservargli i piedi e cominciai a scrivere da lì. Via Skype non sarebbe stato possibile».

Poteva pure accadere di conoscere per caso il padre di un campione: «Dino Zoff mi raccontò che suo padre leggeva per avere un’idea completa Famiglia Cristiana e l’Unità, me lo presentò in Friuli spiegando: “Sai, credo che dubiti del mio lavoro, mi dice: Ma è proprio sicuro che guadagni tutti questi soldi impedendo a una cosa di cuoio di entrare in rete?”. Ci ho pensato quando ho scritto Non dite a mia mamma che faccio il giornalista sportivo, mi crede uno scippatore di vecchiette. Mia madre era come il papà di Zoff».

A Torino 2006 Ormezzano, torinese e torinista Dop, ormai in pensione, faceva gli onori di casa, ironizzando sul motto olimpico “Passion lives here” che si prestava a traduzioni osé. Forse non sa, Gpo, che, in una notte memorabile di ricordi, in un bar della Crocetta sotto il cielo rossastro di neve della Torino olimpica con Livio Berruti, ha dato sangue e carne all’immaginario di una ex ragazzina, impallinata di sport, che tanti anni prima aveva cercato nei suoi racconti su FC una via di fuga alla noia delle chiacchiere degli adulti, nelle domeniche d’inverno. Non sa che c’è voluto un attimo, lì per lì, per istruire la mente a far combaciare tutti i pezzi del puzzle: il campione di Roma e quella firma torrenziale con i due signori persi nell’amarcord al bancone. Che bello, però.

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