Una sera di fine luglio del 1996, nell’atrio di un hotel Holiday Inn di Atlanta, Gian Paolo Ormezzano, mi venne incontro e mi disse. “Dopodomani debuttano alle Olimpiadi le gare di mountain bike. Hai presente quanti italiani hanno in garage una bici da mountain bike? Secondo me è un servizio da fare. Ti va di andarci insieme per un pezzo di vigilia?”.
Come si poteva dire di no a un maestro di giornalismo come Ormezzano? Era anche l’occasione per stare un po’ accanto al giornalista di cui leggevo gli articoli da ragazzino, quando ero appassionato di ciclismo. Quando gli confidai che con i soldi delle prime paghette avevo comprato la sua “Storia del ciclismo” pubblicata da Longanesi mi abbracciò commosso aggiungendo che quel libro era anche costoso, quindi doveva essere stato un sacrificio non da poco per un adolescente. Il giorno dopo arrivare sul campo di gara fu lungo e complicato, anche perché alle Olimpiadi di Atlanta la logistica era pessima. Partimmo la mattina molto presto. Prendemmo prima un costosissimo taxi, poi un pullman, infine ci portarono sul campo di gara con una macchinetta elettrica simile a quello che si usano sui campi da golf. Il lungo tragitto fu il momento ideale per farmi raccontare da Gian Paolo (me lo aveva chiesto un circuito radiofonico) le sue Olimpiadi, estive e invernali. Nel flusso dei ricordi quello più bello e commovente riguardò le Olimpiadi invernali di Sapporo, in Giappone, nel 1972. Gian Paolo raccontò con emozione che a una certa ora del pomeriggio, prima del tramonto, la luce e la neve assumevano dei colori rosati che lo lasciavano incantato. “Sai”, disse, “io stavo ad ammirare quella neve rosata e mi spiaceva essere lì da solo, senza poter condividere quella bellezza con una persona a cui volevo bene”.
Quando arrivammo sul campo di gara, i tecnici della squadra azzurra di mountain bike ci guardarono stupefatti. Erano al telefono con gli altri giornalisti italiani rimasti in sala stampa ad Atlanta, che chiedevano notizie e anticipazioni. Ormezzano invece era lì, a sessant’anni suonati, con il taccuino del cronista in mano, a fare domande e a cercare curiosità. La sua fu non solo una lezione di giornalismo sul campo, ma anche un’ intuizione vincente, perché il giorno dopo arrivò la medaglia d’oro di Paola Pezzo, nella gara femminile.
Nel lungo viaggio di ritorno verso Atlanta Gian Paolo cominciò a scrivere il pezzo, un po’ in pullman e un po’ in taxi, tenendo il computer sulle ginocchia. Ogni tanto il ticchettio dei tasti si fermava, allora scoprivo che Gian Paolo si era addormentato. Dopo un paio di minuti rialzava la testa e riprendeva a scrivere. Mi resi conto che questi suoi micro sonni erano frequenti. Se li concedeva anche la sera, magari nel frastuono della tribuna stampa dello stadio olimpico durante le finali di atletica leggera. Questi sonnellini erano il suo espediente per recuperare energie e mantenere i ritmi forsennati del suo lavoro. Lo incontravi a colazione prima delle 7 e scoprivi che nelle prime ore del mattino aveva già fatto collegamenti telefonici con varie radio, scritto uno o più articoli, inviato le sue rubriche alla redazione di Famiglia Cristiana e del Giornalino, di cui fu uno storico collaboratore. Il giorno dopo l’attentato al Parco Olimpico di Atlanta del 1996 (un morto e 111 feriti) gli chiesi un commento al volo per una radio. In piedi e con il vassoio della colazione in mano parlò per quasi due minuti senza alcuna esitazione, impeccabile persino nella punteggiatura. Era davvero un mostro di bravura.
Generoso di tempo e di consigli era sempre pronto a dare una mano ai colleghi, quando serviva. Ai campionati mondiali di calcio del 1994 negli Stati Uniti si trovò con un ginocchio gonfio come un pompelmo, ma anche con le stampelle fu presente accanto ai colleghi de La Stampa fino alla finale di Los Angeles persa ai rigori dall’Italia. “Su Gian Paolo puoi sempre contare”, mi confidò il compianto Marco Ansaldo, suo collega del quotidiano torinese.
Generosità, curiosità, competenza e allegria sono le parole che possono riassumere la formidabile carriera di Gian Paolo Ormezzano. Riusciva a portare sempre allegria, anche nei momenti più tesi e complicati. Riuscì a trovare la forza di scherzare anche quando anni fa un problema circolatorio lo fece svenire in diretta durante la trasmissione radiofonica Prima Pagina di Radio3. Ricoverato in ospedale, si riprese nel giro di pochi giorni. Quando gli telefonai in clinica sdrammatizzò la situazione con una formidabile battuta da tifoso torinista,: “Sai, all’improvviso mi si è spenta la luce e ho perso conoscenza, ma non ho avuto paura di morire. Mi terrorizzava soltanto una cosa: risvegliarmi juventino”. Riposa in pace GPO.