Per scoprire Napoli, bisogna partire dal mare. La macchina da presa di Paolo Sorrentino si avvicina dall’acqua, prima di immergersi tra le case. Lo sguardo intimista ha radici lontane. Per la prima volta il regista si mette a nudo. Racconta la sua vita, i traumi, le passioni, il fascino senza tempo di una città che, come disse Francesco Rosi, è «il centro del mondo». Questa è una storia sincera, ispirata. Nel titolo c’è già un’affermazione: È stata la mano di Dio. Si fa riferimento a Maradona, ma il senso è la ricerca della salvezza. Il film è l’anatomia di una famiglia numerosa, con parenti eccentrici e tante difficoltà relazionali. Ognuno è il pezzo di un mosaico, l’elemento cangiante di un affresco d’altri tempi. È stata la mano di Dio somiglia per tanti versi ad Amarcord. Sorrentino sceglie come alter ego il giovane Fabietto, ragazzo napoletano che negli anni Ottanta si confronta con calcio, cinema e crescita. Fino alla morte dei genitori, che gli sconvolge l’esistenza. Ma il film non è solo la cronaca di un lutto. È il ritratto appassionato di una gioventù che, nel bene o nel male, corre come il vento. È stata la mano di Dio, dopo aver vinto il Gran premio della giuria alla Mostra di Venezia, arriverà su Netflix il 15 dicembre, dopo una breve finestra nelle sale cinematografiche dal 24 novembre. Nel cast spicca anche Toni Servillo. Il film è stato scelto per rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar.
Che cosa ha significato per lei raccontare una storia così personale?
«È stato un appuntamento con la memoria che inseguivo da anni, ma che continuavo a rinviare. Volevo che le mie pene non fossero più oggetto di un monologo interiore. Sulle prime non pensavo di farne un film, erano anni che raccoglievo pensieri su questa parte della mia vita, ma non sapevo bene cosa ne avrei fatto. E se ho deciso, a un certo punto, di dare una forma a tutti questi pensieri, l’ho fatto solo perché volevo lo leggessero i miei figli. Volevo spiegare loro alcuni miei silenzi, volevo che capissero perché sono così come sono».
Quanto di quello che vediamo nel film corrisponde a realtà?
«Nel film c’è tanto di vero, ma ci sono anche delle invenzioni, perché qualsiasi storia per essere trattata in modo cinematografico ha bisogno di adattarsi alle regole che determinano il racconto per immagini».
Che ricordo ha dei suoi genitori?
«Quello di una coppia che a modo suo si amava molto e che, come accadeva in quegli anni, si divertiva con poco, in modo quasi ingenuo direi. Mia madre, in particolare, era dotata di un grande senso dell’umorismo e di una prodigiosa capacità di aggirare problemi e preoccupazioni».
E della prima volta che ha visto Maradona giocare allo stadio?
«Maradona a non è arrivato a Napoli, ma è apparso da un sotterraneo dello stadio. Non ci sono foto di lui all’aeroporto o alla stazione, è semplicemente apparso davanti a settantamila persone, e io di quel giorno conservo la sensazione di aver assistito a un’apparizione».
Pensa che il titolo del film abbia un valore anche spirituale?
«La frase è stata pronunciata da Maradona per giustificare forse il suo fallo di mano, ma io l’ho sempre interpretata in modo molto personale, perché di fatto devo la mia vita alla passione per il calcio e per Maradona. Quindi ho fatto mie queste parole, adattandole alla mia storia. In un senso molto letterale e intimo, dunque sì, per me lo ha».
Che cosa significa essere genitori oggi?
«In senso assoluto non lo so, posso dire che io cerco di essere più presente e affettuoso di quanto non lo sia stato mio padre. Come tutti i suoi coetanei, non era stato educato all’affettività, nessuno aveva insegnato loro a dire “Ti voglio bene” a un figlio».
Segue ancora il calcio con l’entusiasmo di un tempo?
«Sempre, guardo le partite del Napoli con mio figlio, ma anche quelle di altre squadre e altri campionati. Mi piace molto».
Come è cambiata Napoli negli anni?
«Poco. Ci sono dei chiari cambiamenti, più estetici che di sostanza, ma in fondo la città e i napoletani sono rimasti gli stessi, prigionieri forse della sensazione di essere unici».
Lo sport aiuta a crescere? E il cinema?
«Tutto aiuta a crescere. Lo sport e il cinema possono farlo meglio di altro. Educano allo sviluppo di ciò che è determinante nella vita di ciascuno: una sensibilità duttile, aperta, senza pregiudizi».
Qual è l’insegnamento più importante che cerca di dare ai suoi figli?
«Non sono bravo a insegnare nulla. Avevo dei sogni e li ho inseguiti con tenacia, a dispetto delle prospettive di partenza, che non erano così incoraggianti. Spero che anche loro facciano lo stesso».
Che cosa significa essere giovani oggi in Italia?
«Non ho certezze in merito. Essere giovani è meraviglioso e complicato, allo stesso tempo, a tutte le latitudini. Ho il sospetto che sia l’idea del futuro, spesso, a spaventarli. Per questo il film si conclude su un’apertura di speranza rispetto al futuro. Il futuro c’è sempre, anche se spesso, da ragazzi, si è incapaci di vederlo».
È ottimista sul futuro del cinema?
«È il bisogno di racconto che è insopprimibile. Può cambiare la forma, ma non la sostanza di questo bisogno universale. Dunque, sì, sono ottimista».
(Questa intervista è stata pubblicata sul numero di Famiglia Cristiana n.46 del 2021) .