La repressione delle manifestazioni contro le norme liberticide volute da Pechino il primo luglio 2020, a Hong Kong. Foto Reuters. In alto e in copertina, una dissidente fotografata ai primi di luglio di quest'anno con una maglietta sulla quale è stampata l'immagine di Leon Tong Ying-kit, 24 anni, mentre manifesta sventolando una bandiera nera con su scritto: "Liberate Hong Kong". Foto Epa/Miguel Candela.
Il ventiquattrenne Leon Tong Ying-kit, attivista di Hong Kong, potrebbe presto stabilire un primato nient’affatto invidiabile: essere condannato all’ergastolo per aver ferito tre agenti e, soprattutto, aver sventolato una bandiera inneggiante alla libertà per Hong Kong.
I fatti risalgono a un anno fa, esattamente al fatidico 1 luglio 2020, giorno dell’entrata in vigore della famigerata Legge sulla sicurezza nazionale, nella città a lungo conosciuta come il “Porto profumato”. Secessionismo e terrorismo sono, sulla base della contestata normativa liberticida, i reati di cui è accusato il giovane; il primo luglio di un anno or sono Tong, infatti, partecipò, a modo suo, alle manifestazioni di protesta inscenate nella metropoli, in sella alla sua moto e con in mano una bandiera nera e la scritta “Liberate Hong Kong”, giudicata provocatoria dalle forze dell’ordine.
Già: proprio il fatto di «aver sventolato quella bandiera secessionista con l’intento di richiamare l’attenzione mediatica e incitare qualcuno a cercare di separare Hong Kong dalla Repubblica popolare cinese» è la colpa più grave attribuita a Tong, di professione cuoco in un ristorante e medico improvvisato durante le proteste popolari. Così hanno deciso martedì 27 i giudici scelti dal governo. La durata della pena non è ancora stata comunicata (lo sarà a breve), ma c’è chi teme che al giovane possa perfino essere comminato l’ergastolo.
Il procedimento contro Tong è solo l’ultimo anello di una catena di eventi che stanno segnando in modo assai negativo la vita di una metropoli che, solo fino a un anno fa, si fregiava di uno status unico al mondo. «Un Paese, due sistemi», avevano promesso le autorità di Pechino alla popolazione al momento del ritorno di Hong Kong alla Cina, il 1 luglio 1997, sulla scia della lunga e peculiare tradizione che contrassegnava l’ex colonia britannica. Da un anno in qui è sempre più evidente che la città sta per essere forzatamente uniformata alla condizione delle altre città cinesi. Vanno in questa direzione, ad esempio, la pesante stretta sulla libertà di stampa che il 24 giugno scorso ha conosciuto una tappa drammatica, con la chiusura dell’Apple Daily, l’unica testata giornalistica indipendente di Hong Kong, anzi esplicitamente a favore dl movimento democratico, protagonista – si ricorderà – di memorabili proteste di popolo specie nell’estate del 2019. Il direttore del giornale, Jimmy Lai, è in carcere da lunghi mesi. Come lui, di fatto, pressoché tutti gli esponenti del movimento di opposizione democratica sono ora fuori gioco: tra loro anche personalità di grande rilievo pubblico, quali Joshua Wong, giovane leader, gia protagonista ai tempi della “Rivoluzione degli ombrelli”, il sindacalista di lungo corso Lee Cheuck Yan e l’ultraottantenne Martin Lee, avvocato cattolico e politico di primo piano: a quest’ultimo è stato risparmiato il carcere solo a motivo della sua età.
L’applicazione della famigerata legge sulla sicurezza nazionale ha portato inoltre alla fine di un evento-simbolo importantissimo, ossia la grande manifestazione popolare del primo luglio. In coincidenza con l’anniversario del ritorno della città sotto la sovranità di Pechino, a partire dal 1997, ogni anno centinaia di migliaia di persone di età e appartenenza culturale e religiosa diversa sfilavano per le vie di Hong Kong per rivendicare l’applicazione della Basic Law (la “legge base”, una specie di mini-Costituzione per la città), emanata con l’obiettivo dichiarato di condurre la città a un sistema pienamente democratico. C’è infine un’altra, estremamente negativa conseguenza della succitata legge, ossia la sospensione delle elezioni parlamentari a Hong Kong che erano state inizialmente previste per il settembre 2020. La normativa approvata prevede infatti che non possano candidarsi i partiti e gli esponenti politici “non patriottici”, ovvero sgraditi a Pechino perché schierati all’opposizione, in nome della lotta per la libertà e la democrazia. Ora: sebbene Hong Kong non fosse retta, come detto, da un sistema pienamente democratico (il complesso meccanismo della rappresentanza in ogni caso garantiva la fedeltà a Pechino dell’Assemblea legislativa), esisteva comunque una vita politica contrassegnata dal confronto tra politici e partiti di diverso orientamento. Una situazione che ora è cambiata profondamente e in peggio, forse persino in modo irreversibile.
Tant’è che padre Gianni Criveller, missionario del Pime, profondo conoscitore della realtà di Hong Kong per averci vissuto lunghi anni, scrive sul numero di agosto-settembre di Mondo e Missione in un amaro articolo dal titolo “Hong Kong, agonia di una città”: «La legge sulla sicurezza nazionale ha avuto effetti devastanti. Le autorità centrali hanno ottenuto i risultati che si proponevano: la fine del movimento democratico e delle manifestazioni popolari che lo sostenevano».